Londra e Torino, sangue e terrore
Si sprecano i commenti all’indomani della terza strage terroristica a Londra in tre mesi, sul London Bridge e il Borough Market, e dopo l’incredibile episodio di piazza San Carlo a Torino nel corso della partita Real-Juve. Così Francesco Merlo su La Repubblica s’interroga, nel distinguere i due casi: «Nel terrorismo controllato infatti si scappa tutti insieme per nascondersi e organizzarsi tutti insieme. Nel terrorismo annunziato invece si scappa ciascuno per sé». Ha ragione, ci sono troppe differenze tra Londra e Torino per assimilare i due casi alla stessa paura del terrorista. Sul Corriere della sera, invece, Paolo Mieli allarga lo sguardo: «Coloro che ad ogni attentato incitano a continuare a vivere come si faceva prima – scrive – e nel contempo annunciano l’uso, “da questo momento”, di maniere forti (non si sa né dove, né contro chi) dicono cose che da tempo hanno perso di senso. Meglio affidarci a chi non offre soluzioni e propone riflessioni. Almeno, forse, faremo qualche passo avanti e non rimarremo inchiodati al punto in cui siamo fermi da anni». Meno male che anche Mieli cambia idea…
Questo è il punto: siamo fermi da anni in una guerra che pensavamo fosse tradizionale, e nella quale abbiamo immesso armi e strategie da Seconda guerra mondiale, mentre siamo nella Terza guerra mondiale, così battezzata da Bergoglio nel settembre 2014 a Redipuglia, guerra asimmetrica e polverizzata, basata sulle contaminazioni mediatiche ideologiche più che sulle convinzioni politiche e geostrategiche. Guerra incontrollabile, guerra della paura e del fai-da-te che solo un reale controllo di prossimità può evitare, o perlomeno limitare. Si capisce la rabbia di una Theresa May che vede in crisi la sua campagna elettorale, ma quel suo «troppo è troppo», pronunciato all’indomani della strage del London Bridge, dice l’impotenza e la frustrazione di un intero continente, o di un mondo occidentale tout court, che non riesce a capire come agire, come far sì che sia efficace la lotta contro il terrorismo. Una violenza cieca che viene teorizzata sì nei Paesi a maggioranza islamica, ma che recluta a piene mani anche in Occidente, dove colpisce molto meno che nei Paesi di guerra, ma che fa molto più rumore. E non bastano i tweet di Trump per dire che il terrorismo sarà sconfitto.
I politici non dovrebbero solo lamentarsi e tantomeno fare proclami azzardati. I politici dovrebbero fare il loro mestiere, che è quello di governare guardando avanti. Il corto respiro delle democrazie occidentali spinge i politici a cercare il tornaconto elettorale personale di breve durata, più che a perseguire il bene comune del loro Paese a lungo termine. Nella lotta al terrorismo certamente serve attenzione alla sicurezza e all’intelligence, ma vanno affrontati i problemi di fondo per uscirne: i modelli inglese (multiculturalismo) e francese (assimilazione) di integrazione tengono? Sembrerebbe di no, bisogna inventarne altri (e forse Germania e Italia sono più avanti). Le nostre relazioni coi Paesi arabi funzionano? No, non sono mai su un livello di parità, c’è eredità coloniale, c’è business, c’è doppia misura di giudizio, c’è sostegno a Paesi conniventi col terrorismo…
Da seguire attentamente in questo contesto la decisione di Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Bahrein di chiudere le frontiere col Qatar accusato di fomentare il terrorismo: qualcosa si muove nello scacchiere del Golfo Persico, anche se sulla sincerità della decisione planano dubbi colossali, soprattutto per quel che riguarda Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati. Probabilmente la decisione è un effetto della recente visita di Trump nella regione, e del suo invito ad espellere il terrorismo wahhabita e salafita dai Paesi sunniti, ma le infinite giravolte cui ci hanno abituato le monarchie nella regione spingono alla prudenza. Estrema.