Londra, liberalismo e partiti politici

Sulle rive del Tamigi, alla scoperta di una rivoluzione che ha preceduto quella più nota avvenuta in Francia
Cerimonia di inizio del'anno giudiziario a Westminster: i giudici si avviano in corteo dall'abbazia al Parlamento. Foto EPA/TOLGA AKMEN

Quando si parla di rivoluzione la nostra mente corre spontaneamente in Francia. Eppure, come ha notato Margareth Thatcher nel 1989, celebrando il bicentenario della presa della Bastiglia, gli inglesi avevano fatto di meglio un secolo prima.

Viaggiamo allora verso Londra, a scoprire cosa è maturato nel concetto di democrazia lungo le sponde del Tamigi.

Il Parlamento inglese aveva fatto la sua apparizione nel 1250 con la convocazione di Simone di Montfort, conte di Leicester, dando attuazione alle Disposizioni di Oxford. Un cammino molto lento e contrastato quello che creò le condizioni per adottare nel 1628 la Petition of rights (Petizione dei diritti). In essa vennero avanzate quattro richieste al re: la tassazione necessita del consenso del Parlamento, la carcerazione deve essere giustificata, non vi è obbligo di ospitare soldati e non va applicata la legge marziale in tempo di pace.

Il principio sostenuto dai parlamentari inglesi era che “il re riceve un diritto a governare limitato dalle leggi e secondo la legge del Paese”, un’anticipazione di quel principio di legalità che è una delle componenti essenziali di quello che oggi chiamiamo “Stato di diritto”.

Carlo I inizialmente rifiutò. Poi, pensando di cavarsela con un atto puramente formale, accettò senza mutare atteggiamento. A questo punto lo scontro fra il potere assoluto e l’organismo democratico – per quanto rappresentasse solo l’aristocrazia terriera – venne allo scoperto.

Per vent’anni il re tentò invano di imporsi con scioglimenti del Parlamento e due guerre civili. L’epilogo fu la sua decapitazione dopo un processo intentato dai giudici parlamentari. Seguirà una breve stagione repubblicana, sotto la guida di Cromwell, per poi ripristinare la monarchia con il figlio del sovrano decapitato, Carlo II.

Come fa notare il nostro mentore Yves Mény, nei venticinque anni di regno del nuovo monarca si stagliarono due posizioni, i Whigs strenui difensori del parlamento, e i Tories sostenitori del re, prefigurando così la nascita dei partiti politici, e la dinamica tra sostegno e opposizione all’esecutivo.

I Whigs, oltre che parlamentaristi, erano liberali e propugnavano la tolleranza religiosa in un’epoca devastata dalle guerre di religione, che condizionavano la vita civile e gli assetti di potere.

Prima di scrivere le sue Lettere sulla tolleranza nel 1689 il filosofo John Locke, forse uno dei più famosi Whig, aveva combattuto nell’esercito contro Carlo I. Lui, che era stato parte delle sanguinose guerre civili, espresse, come molti suoi concittadini, la necessità di portare i “conflitti in armi” a “conflitti a parole” nell’aula del Parlamento.

A quasi quattro secoli dalla Petition of rights, il percorso democratico corre ancora su un crinale fragile, e le tentazioni autoritarie si affacciano anche in sistemi democratici dati per consolidati. La capacità di risolvere con le parole i conflitti viene troppo spesso sostituita con la forza delle armi.

L’ordine liberale internazionale che si è affermato nel dopoguerra del XX secolo – a cui la Rivoluzione Inglese ha fortemente contribuito – appare fortemente minacciato con la crescita economica e geopolitica di attori che esprimono altre matrici culturali, prefigurando un nuovo ordine internazionale.

Su questo terreno si gioca una sfida enorme per la democrazia. Come pure sugli strumenti di rappresentanza.

Nel nostro tempo i partiti politici vivono una crisi profonda per la grande difficoltà di fare sintesi propositive in una società complessa. Eppure, questa è una delle grandi lezioni della Rivoluzione Inglese, e non possiamo farne a meno in quanto strumento fondamentale di rapporto fra lo Stato e la Società, palestra di composizione dei conflitti e di proposte per la costruzione del bene comune.

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