L’onda araba

Si parla tanto di Egitto, ma il fuoco appiccato in Tunisia si rivela estremamente contagioso nel mondo musulmano del Nord Africa e del Vicino Oriente
egitto proteste

Mentre la piazza al Cairo (nella foto) cerca di dare la spallata decisiva al regime del presidente Mubarak, che ha perso anche l’appoggio del grande alleato statunitense – a differenza dell’Europa, Obama sta muovendosi con energia nello scacchiere egiziano e arabo –, non si placano le rivolte e i sommovimenti in quasi tutto l’arco geografico che va dal Marocco alla penisola arabica, con una puntata a nord fino alla Siria.

Tali proteste, sviluppatasi in maniera rapida e coinvolgente grazie ai new media, si amplificano anche quando Internet e i cellulari vengono messi fuori uso, come è il caso dell’Egitto. Ciò testimonia il fatto che le ragioni economiche, politiche e sociali che stanno alla base dei movimenti delle folle sono reali e potenzialmente dirompenti.

 

In Tunisia, partito il presidente e “dittatore-soft”, Ben Ali, il premier ad interim Mohammed Ghannouchi, uomo del vecchio regime, a fatica sta mettendo in piedi un governo di transizione verso le elezioni, promesse nel giro, massimo, di sei mesi. Qua e là nel Paese le manifestazioni continuano, mentre si apprende che i morti negli incidenti di gennaio sono stati almeno 219, e non i 70-80 prima annunciati. Ieri un 21enne disoccupato si è dato fuoco per protesta contro la rivoluzione troppo lenta.

 

L’Algeria si appresta a vivere altri giorni di fuoco. Per i prossimi cinque giorni sono infatti annunciati diversi scioperi di protesta: studenti, impiegati statali, infermieri, autoferrotranvieri… Anche in Algeria la disperazione ha portato alcuni disoccupati a darsi fuoco per protesta contro la grave crisi economica che attraversa il Paese.

 

Anche in Sudan ci sono state delle proteste antigovernative, soprattutto studentesche, ispirate dalle analoghe manifestazioni in Egitto, Tunisia e Algeria. Uno studente, Mohammed Abd al-Rahman, è rimasto ucciso negli scontri. Le proteste anche qui sono state organizzate dagli studenti su Facebook. Il governo ha contestualmente accettato i risultati del referendum per la secessione del Sud del Paese.

 

Non è stato risparmiato dall’onda di contestazioni nemmeno lo Yemen. Il presidente, Ali Abdullah Saleh, in seguito alle proteste dei giorni scorsi che ne chiedevano le dimissioni, ha rinviato le elezioni politiche previste per aprile ma, come conferma l’Agi, ha annunciato il congelamento degli emendamenti costituzionali con cui puntava a ottenere un nuovo mandato. «Nessuna proroga, nessuna successione familiare, nessun orologio che si ferma», ha dichiarato.

 

A proposito della Giordania, re Abdallah II ha ieri licenziato il governo di Samir Rifai, nominando contestualmente un nuovo premier, per varare «le necessarie riforme politiche». La decisione appare una chiara conseguenza degli incidenti di piazza dei giorni scorsi, scatenatesi in modo quasi inatteso, visto che il Paese hachemita era considerato al riparo da tensioni di piazza.

 

Anche nella “blindata” Siria appaiono qua e là segni di malcontento contro il Ba’th, il partito che governa la Siria da quasi cinquant’anni. Gruppi dispersi, anche questi grazie ai social network, hanno decretato che dopo la preghiera musulmana di venerdì 4 febbraio inizierà un “Giorno della collera”, una protesta pacifica e, si pensa, anche una manifestazione di piazza. I gruppi interessati rivolgono al presidente Bashar Assad delle richieste precise: che cessi lo stato di emergenza; che la Siria diventi un Paese democratico; che si modifichi la costituzione; che il governo sia eletto dal popolo, cacciando e punendo i corrotti.

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