L’oggetto della filosofia
In una precedente riflessione abbiamo individuato nell’esperienza della percezione del nostro essere, così come si manifesta quando alla nostra coscienza si presenta in maniera chiara e riflessa il problema del nostro esistere, il punto d’avvio del pensare in senso filosofico. A partire da lì si sviluppano, in successione logica, alcune domande fondamentali. Fra queste una delle prime è: qual è l’oggetto della filosofia? Le soluzioni date a questo problema sono state varie. Secondo la tradizione scolastica, ampiamente accreditata nel corso della storia del pensiero, oggetto della filosofia è l’essere, la conoscenza dell’essere, sia in quanto ente, sia in quanto fondamento comune a tutti gli esseri. In realtà, il problema dell’essere, così posto, non costituisce, a mio avviso, una questione di primario interesse. Il problema primordiale che l’uomo si pone è infatti quello della soluzione di sé: perché io sono? cos’è che io sono? come mai io sono un problema a me stesso? Ora, nel processo conoscitivo, l’oggetto deve essere adeguato al soggetto. Ciò significa che, se il soggetto si è posto alla ricerca della comprensione di sé e della propria esistenza, come vero problema filosofico di fondo, la soluzione di quel problema sarà l’oggetto di ciò che egli va cercando, e che deve perciò cercare non come qualcosa al di fuori di sé, ma come qualcosa che attinge al soggetto stesso. È a questo punto che emerge una difficoltà cruciale. Finché la risposta mi proviene dal di fuori di me – dalle cose, dagli oggetti -, e non viene data a me in me e per me, essa rimane qualcosa di estrinseco a me, quindi non potrà mai essere una risposta esaustiva. D’altra parte, in me io non trovo una risposta adeguata al mio domandare. Impostato così il problema, facciamo un passo ulteriore. Entrato nell’universo della conoscenza filosofica, ancora avvolto come nel buio fitto di una caverna, uno dei primi dati che mi viene offerto a livello di percezione e di conoscenza è il mondo fuori di me: un mondo fatto di piante, di prati, di fiori, di opere d’arte…, che io da sempre ho visto, che da sempre mi ha parlato, ma come dall’esterno, senza che io lo cogliessi, in certo modo, nel suo intimo esistere. Ad un certo momento mi accorgo che nelle cose, al di là di come mi appaiono, vi è qualcosa di profondo, di essenziale, che mi colpisce e mi attrae. Avviene in me come una sorta di risveglio: con la coscienza della mia esistenza acquisto la coscienza dell’esistere delle cose come di qualcosa che va al di là del loro stesso presentarsi al mio sguardo, e perfino alla mia ragione, alla mia mente. È questo qualcosa che mi attrae, che mi spinge a possederle e a lasciarmi, a mia volta, in certo modo, possedere da esse, al fine di trovare un’unità fra il loro essere e il mio esistere. È questo che cerco rapportandomi alle cose nella quotidianità del mio vivere – nel camminare e nel leggere, nel mangiare e nel guardare un tramonto -: cerco di cogliere quel tanto di essere che c’è sotto di esse, che mi attira irresistibilmente e che vorrei entrasse in me, diventasse me e colmasse il vuoto suscitato dalla percezione del mio stesso esistere, dando soluzione a ciò che sto cercando. Per questo nessuna cosa mi parla quando mi si presenta solo nella sua forma esteriore, sia pure di bellezza e di arte, ma priva di quel tanto di essere che porta in sé. Ho fatto anch’io, come tutti gli uomini, l’esperienza di immergermi nelle cose. Vi è chi vi si immerge in modo superficiale, come, ad esempio, chi è afferrato dal desiderio di bere un bicchiere di vino: sospinto dalla insoddisfazione di sé, vorrebbe – anche se inconsapevolmente – afferrare qualcosa che egli intuisce celarsi sotto quel vino. Lo gusta e gli piace, in parte se ne sente appagato – ed è ciò che lo porterà a ripetere ancora quel gesto -, ma, al tempo stesso, ne avverte l’amarezza e che non è lì ciò che egli va cercando. In realtà, è quanto anch’io sperimento sempre nel mio rapportarmi alle cose. Nell’istante in cui colgo quel tanto di essere racchiuso nella cosa, quell’essere mi diventa amaro. Nell’istante in cui bevo quel bicchiere di essere che la cosa mi porge, ne avverto l’incapacità di saziarmi. Potrò continuare a cercare ancora in mille altre cose, ma mi raggiungerà sempre un bagliore inappagante di essere. Potrò afferrare invece un di più di essere nell’uomo. Anche verso di lui mi sento attratto, ma in modo diverso rispetto alle cose, non tanto cioè per possederlo e servirmene, ma per arricchirmi di quel tanto di vita e di essere che egli possiede e che sempre appare al mio sguardo tanto grande, bello e buono. Eppure, quando entro in rapporto con lui, ne avverto, al tempo stesso, l’intima fragilità, il suo essere costantemente esposto a qualcosa che può corromperlo e distruggerlo, sia sul piano fisico che morale. Vedo affiorare così la dimensione tragica dell’essere e dell’esistere umano, segnato dalla presenza di qualcosa di profondamente sano, divino e, insieme, da una tendenza radicale ad essere per la malattia e la morte. È la situazione che accomuna ogni uomo. Ritrovo quindi me stesso rispecchiato negli altri.Mi vedo in essi come anch’io sono in realtà, come siamo tutti noi, e mi sento accomunato anche a tutti coloro che, pur soli, perché ignari della presenza di Dio, scavano oltre questa nullità dell’uomo per cogliere il positivo che vi abita e che potrebbe condurli alla scoperta di qualcosa di più grande, alla scoperta di Dio. Se mi interrogo con coraggio e senza veli, scopro infatti che tutto ciò che mi attrae nelle cose e negli uomini è quel tanto di presenza di Dio che c’è sotto di loro. Sotto di loro non c’è il niente. C’è Dio. C’è l’Essere. C’è quel tanto di essere che Dio partecipa loro, che sazia la mia ricerca e, al tempo stesso, la rimanda verso una ulteriorità continua. Perciò, anche coloro che ricercano prescindendo da Dio, mi dicono Dio per quel tanto che mi dicono dell’uomo, perché scopro che quel tanto che mi attraeva dell’uomo era quel tanto che nell’uomo c’era di Dio e quel tanto che mi attirava nelle cose, al di là delle loro apparenze, era quel tanto di essere che era la presenza di Dio in esse. Presenza che è partecipazione dell’Essere, che mi riempie e, al tempo stesso, mi lascia il vuoto, che mi fa cogliere la bontà e l’integrità dell’altro, pur avvertendone la debolezza e la finitudine. Quando bevevo quel bicchiere di vino, mi rimaneva la bocca amara perché non mi dava niente. Però era la bocca amara che velava una cosa dolce. Perciò chiunque, con la sua ricerca, scopre a me questa dolcezza, mi dona infinitamente. Si prospetta così una prima soluzione al problema filosofico di fondo che abbiamo individuato nella comprensione di sé e della propria esistenza. Questa soluzione è Dio, che mi si palesa però non nei tratti oggettivanti e astratti della metafisica classica, ma nell’esperire di essere io sostenuto da qualcosa. È questo che diventa l’oggetto della mia ricerca: non tanto, allora, quel Qualcuno che mi sostiene, che avverto comunque troppo lontano perché infinitamente superiore a me, ma il mio essere sostenuto da Qualcosa dunque il rapporto di me con quel Qualcuno che mi sostiene. Compio così il primo passo verso la conoscenza, ancora oscura, certo, e non luminosa: so di non sapere, sapendo però che c’è Qualcuno, sebbene non lo conosca, né mai forse lo conoscerò pienamente. Questa apparente contraddizione è tale da infondermi non angoscia, ma pace. Da un lato, infatti, non mi illuderò di conoscere il tutto, neanche delle cose, neanche del mondo. Avendo però percepito questo tutto come dipendente, al pari di me, da Dio e in relazione con lui, comprenderò le cose e il mondo in questo loro rapporto, a partire dal quale potrò procedere nel mio conoscere. Ma sarà un procedere non da solo. Chiunque infatti abbia fatto come me quel passo, entrando nella voragine oscura della conoscenza, e abbia detto qualcosa di ciò che ha intravisto, diventa per me essenziale, perché mi illumina quel buio che mi sostiene, mi rende più vicino quel Qualcosa che io sento essere ancora infinitamente distante da me. Mi metterò dunque alla ricerca del patrimonio di conoscenze antropologiche o teologiche acquisito da quanti hanno fatto la mia stessa esperienza. Tutto io cercherò di cogliere, perché tutto mi dirà qualcosa, tutto mi aiuterà a rispondere al mio domandare. Qual è, allora, l’oggetto della mia ricerca? È Qualcosa che è, a un tempo, fuori di me e dentro di me, Qualcosa che, essendo legato al mio esistere, e dunque dal di dentro di me, può dare a me stesso, essendo fuori di me, risposta e completezza. Questo Qualcosa, dunque, non può essere che Dio. Questo solo è il principio e l’oggetto della mia metafisica: quel Qualcuno che è presente in me e, al tempo stesso, assente da me, quel Qualcuno che è in me, in quanto mi dà il suo Essere e mi sostiene nell’essere, e che è distinto da me in quanto mi completa. E, una volta trovato Dio come la relazione del tutto, tutto, in certo senso, mi diventa dolce. Per questo, nei filosofi e negli artisti, nell’uomo e nelle cose voglio attingere solo quel tanto di essere che Dio mi porge, perché, cogliendolo, possa comprendere qualcosa di più di lui. Lo voglio fare tutto mio, ma dopo che ho scoperto qual è l’oggetto della mia filosofia. A conclusione della riflessione fin qui condotta, vorrei evidenziare, in forma sintetica, le linee fondamentali sulle quali è andata sviluppandosi e a partire dalle quali sono auspicabili ulteriori approfondimenti. La filosofia non è semplicemente un pensare; è la scoperta dell’esistenza, è un esistere che diventa cosciente. In realtà, all’origine di tanti errori sorti in ambito filosofico, vi è proprio una concezione della filosofia come pensiero distaccato dall’esistenza, il cui oggetto è l’essere, ma solo in quanto pensato, frutto cioè di un processo di astrazione dal concreto, di una sorta di uscita dal proprio esistere per pensare qualcosa che non è più sé e in sé. Ma, se il pensare filosofico inizia con la coscienza dell’esistenza che coincide con l’esistere stesso, allora oggetto della filosofia non può essere un pensiero bensì l’essere in quanto ragione dell’esistenza di tutti gli esseri, i quali non la hanno in sé proprio perché stanno ricercandosi; l’essere, quindi, non in quanto semplicemente pensato, ma in quanto pensare esistente. Fare filosofia è fare esperienza dell’essere, di questo Essere, che è, come dicevo, al tempo stesso dentro di me e fuori di me; dell’Essere che è più grande di me – e sono quindi io per lui e non lui per me, ma, perché io sono per lui, lui è per me. È questo rapporto che mi si presenta come la soluzione filosofica alla percezione di me in quanto esistente. Ed è un rapporto di dipendenza di me da questo Essere e, al tempo stesso, di uguaglianza di me con lui, perché, nella misura in cui scopro questo Essere, che mi si dona e a cui, a mia volta, mi ridono, in una ininterrotta vicendevolezza, io trovo la vera soluzione dell’essere metafisico e la pienezza del mio stesso essere. La ricerca razionale dell’essere diventa allora per me fonte di gioia, perché questo essere, che è Dio, è la risposta all’essere che io sono. Oggetto della filosofia è dunque l’essere che si dona e che è, al tempo stesso, da me ricevuto. E se il riceverlo mi dà, in certo modo, di percepire il mio non esistere, il ridonarlo, ridonandomi, mi da di percepire l’esistere in pienezza. L’atto del filosofare si schiude così come rapporto trinitario fra me e Dio, preludio della soluzione, unica anche sotto il profilo filosofico, che ci viene data dal cristianesimo nella misura in cui entriamo nel mistero della Trinità.