Lobby, armi e pacifisti in disarmo
Abbiamo riportato su cittanuova.it le risposte dei ministri Pinotti e Gentiloni, titolari di Difesa ed Esteri, all’interrogazione presentata dal deputato M5S Luca Frusone circa l’invio di bombe prodotte da un’azienda italiana, controllata da una società tedesca, verso l’Arabia Saudita, Paese coinvolto nel conflitto dimenticato dello Yemen dove i bombardamenti mietono vittime civili, con azioni che non risparmiano scuole e ospedali.
I due ministri hanno detto che tutto avviene secondo le regole mentre la procura di Brescia ha avviato l’inchiesta dopo gli esposti di molti cittadini per il reato di violazione della legge 185/90.
Sulla questione incontriamo la disponibilità a discuterne da parte del deputato del Partito democratico, Giorgio Zanin che ha partecipato attivamente al seminario promosso il 5 luglio alla Camera da Movimento politico per l’unità su armamenti e riconversione produttiva.
Zanin, insegnante di Lettere eletto in Friuli Venezia Giulia dove è nato e abita, da sempre impegnato con l’Agesci (scout) e Acli, nel suo sito personale afferma che «ha imparato la politica in famiglia, ascoltando e confrontandosi, prendendo posizione a favore dei più deboli, valutando con attenzione i problemi e guardando al futuro senza paura». Lo prendiamo alla lettera e cominciamo con le domande.
A prescindere da ogni giustificazione, un Paese democratico come è l’Italia non avrebbe la responsabilità di fermare il flusso verso l’Arabia Saudita che guida, senza e contro l’autorizzazione Onu, una coalizione che continua a bombardare anche ospedali e obiettivi civili nello Yemen?
«Certamente ha delle responsabilità. Qualora non ci siano delle possibilità di intervento diretto, c’è quantomeno il dovere di esprimersi in modo forte e chiaro nel merito, in forza dei propri valori costituzionali e delle dichiarazioni internazionali sottoscritte, là dove si articolano sia le politiche di prevenzione, sia dove vi siano degli spazi di intervento in termini di mediazione per frenare il conflitto».
Non è venuto il tempo di riconsiderare tutta la strategia del gruppo Finmeccanica, ora Leonardo, sul piano della produzione di armi, inevitabilmente attratta verso i mercati dei Paesi in conflitto?
«Il mondo produttivo ragiona con le sue logiche, ostentando a modo proprio una normale dose di cinica cecità. La debolezza della crisi economica e lo scenario di insicurezza geopolitica determinano nei decisori politici un baricentro difensivo, fondato su convinzioni approssimative a base della cosiddetta realpolitik. Nel quadro dato, le debolezze politiche si accompagnano verso l’annullamento dell’iniziativa più che sommarsi per ricavare forza comune. Il boccone diventa facile per le lobby».
Cosa manca per riprendere il discorso credibile di una politica di pace fuori da ogni omissione? Tutto si spiega solo con la debolezza e la divisione del mondo cosiddetto pacifista?
«Il discorso senza omissioni ha bisogno di almeno due presupposti: un mondo meno impaurito e una proposta che rinnovi gli strumenti di governance mondiale. In questo momento sia gli strumenti pensati dopo la seconda guerra mondiale, sia le chiavi di azione sono ampiamente modificati».
In che senso?
«L’Onu è ormai un sarcofago privo di autorevolezza. Il mondo bipolare è stato smantellato per implosione e per fioritura di altre leadership economiche, oltre che militari, che mettono in discussione i ruoli consolidati degli attori abituali. Dulcis in fundo, l’Unione Europea non ha maturato una consapevolezza del ruolo possibile e necessario che per tanti aspetti dovrebbe giocare. I cittadini, che per certi versi stanno vivendo un empowerment significativo – si pensi al successo di iniziative come quelle Avaaz, tanto per esemplificare – non hanno consapevolezza generazionale dell’importanza di mantenere una presa costante su certi valori. La debolezza dei paurosi dipende in larga misura dalla volontà di non rischiare i privilegi acquisiti».
E allora?
«Insomma la vedo lunga e dura, ben aldilà della divisione del mondo cosiddetto pacifista. Mi consola pensare che Gandhi è stato capace di vincere anche con la pazienza».