Lo tsunami, i media e la morte in diretta
Una vignetta pubblicata recentemente da Avvenire (1) dice una grande verità. Si vedono due uomini che conversano. Il primo dice: Dello tsunami non ne parla più nessuno. Il secondo replica: Si vede che anche l’ultimo turista occidentale è rientrato. Come sempre le vignette paiono sintetizzare nella folgore di una provocazione un largo squarcio di verità. Effettivamente dello tsunami non se ne parla più, salvo saltuariamente e, fortunatamente per motivi di collaborazione e solidarietà: appena ieri abbiamo visto i servizi e gli articoli sulla missione congiunta (potenza della filantropia) di Bush senior e di Bill Clinton in Thailandia e, per restare a casa nostra, lunghi servizi sull’encomiabile lavoro di aiuto nello Sri Lanka da parte della nostra protezione civile. Ovviamente, in un sistema mediatico sempre più senza memoria e appiattito sull’istante che fugge, non stupisce che si sia passati ad altro, che si sia voluto scacciare le ormai consunte immagini dei corpi gonfi d’acqua sulle spiagge indonesiane e quelle amatoriali viste e riviste – mosse, distorte e drammaticamente fuori fuoco – delle gigantesche ondate in arrivo, con altri drammi e altre lacrime e altre catastrofi. Normale, nella globalizzazione dei sentimenti ci si porta dietro pure la sterilizzazione dei sentimenti. Scriveva Susan Sontag, grande teorizzatrice della mediaticità del dolore, recentemente scomparsa: Catturare la morte nell’istante stesso in cui sopraggiunge e imbalsamarla per sempre è qualcosa che solo le macchine fotografiche possono fare (2); e, aggiungo io, anche le telecamere. Ma immortalare la morte, ampliando lo spettro della sofferenza e globalizzandolo (3), dice ancora la Sontag, dovrebbe portare ad una maggior partecipazione alla sofferenza altrui. Ma non è così, troppo spesso, perché per autodifesa si arriva ad assuefarsi alle immagini, anche le peggiori che possano esistere. Quindi i filmati devastanti dello tsunami di per sé non hanno portato ad un maggior coinvolgimento, se non emotivo e passeggero, sulle disgrazie altrui. Il villaggio globale pare essere uguale a quei condomini nei quali una persona può morire senza che nessuno dei vicini se ne accorga o intervenga… L’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande anche in questo caso si toccano, nella barbarie dei sentimenti. Dello tsunami i media del mondo intero hanno parlato a iosa per motivi assai disparati. Innanzitutto perché ci si è trovati di fronte ad una catastrofe naturale globalizzata più d’ogni altra, in cui le vittime sono state distribuite un po’ ovunque, dai turisti della lontanissima Scandinavia a quelli della Terra del fuoco. Per questo ce ne siamo interessati? Perché abbiamo sentito i racconti angosciati dei sopravvissuti, le lacrime di chi aveva perso la moglie o la madre, nella nostra lingua, senza traduzioni o sottotitolature? Certo. Ha però influito anche il bisogno di spostare l’attenzione da Baghdad e dall’Iraq verso un’altra zona del mondo – per carità, sempre a distanza rassicurante dalle nostre coste protetto al di qua e al di là dell’Atlantico dell’emisfero nord -, sia per ragioni politiche occidentali, sia per ragioni mediatiche. Come nascondersi che, bene o male, le immagini provenienti dell’Iraq sono ormai un flagello per l’auditel, che registra improvvisi crolli quando a passare sullo schermo sono le immagini ormai viste e riviste delle autobomba e dei kamikaze? Una boccata d’ossigeno, per giunta senza che si possa additare un colpevole preciso, senza che ci si debba schierare pro o contro l’intervento anglo-statunitense nel paese di Babilonia. Una terza ragione, che antropologi e psicologi ci spiegano facilmente, va anche cercata nella straordinaria concentrazione di elementi simbolici ed ancestrali che sono stati messi in gioco dal maremoto: l’acqua, il sole, il mare e la terra. E, a debita distanza d’importanza, quell’altro elemento assai intrigante che è la vacanza, quel momento intangibile in cui la sofferenza non può manifestarsi, nuovo totem ineludibile nella società degli obesi e degli agnostici. Ma c’è un ulteriore elemento che non si può dimenticare, e che forse ha giocato più di ogni altro in questa enorme copertura mediatica data all’avvenimento: di fronte alla forza della natura si resta ammutoliti, non ci sono risposte adeguate, non si può non interrogarsi sul mistero della vita e della morte, sulla bontà della natura e, di rimando, dello stesso Dio. Le parole paiono svuotate della loro forza semantica nel momento in cui qualcosa di imprevisto travalica il senso stesso della parola. Non a caso, forse, in tutto il mondo occidentale si è messa stranamente nel dimenticatoio la parola maremoto, che pur esiste in tutti i vocabolari delle nostre lingue indoeuropee, per concentrarsi su questa parola di origine asiatica, una nuova parola, quasi che maremoto non fosse assai drammatica e convincente. Paradossalmente la copertura mediatica, e soprattutto quella televisiva ha cercato di superare l’imperativo del silenzio caricando lo sgomento e l’indicibile con un troppo pieno di immagini e di parole, quasi per obbligarsi a non pensare, a non pregare, direi. Ma, nello stesso tempo, si è notato come in quei giorni drammatici gli incipit dei telegiornali del mondo intero abbiano abolito il commento da studio, lasciando scorrere per lunghissimi minuti i filmati della tragedia con il solo supporto dei rumori rimasti casualmente incisi nei microfoni delle telecamerine da spiaggia dei turisti che avevano filmato l’arrivo dell’onda gigantesca, o del suono dei passi dell’operatore sulla distesa di sabbia e morte e distruzione. Anche nella cacofonia babelica della televisione, per qualche istante il silenzio ha fatto breccia, costringendo al silenzio del pudore delle coscienze, seppur corredato d’immagini. E a tanti – a molti più di quanti non si possa pensare -, il silenzio della televisione ha rinviato immediatamente al silenzio di Dio, quello che non si comprende: Dov’eri, Dio, in quel momento? Perché ci hai abbandonato? Perché non hai fermato il sommovimento delle viscere della Terra?. Certo, sono stati anche troppi coloro che hanno perso un’occasione per stare zitti, ed hanno presentato la sciagura dello tsunami come un castigo di Dio. Contro queste stupidità bastino le sferzanti parole di Claudio Magris: Una sciagura che fa morire tante persone fa sempre guadagnare qualcuno, se non altro le imprese di pompe funebri; ma pensare che sia stato Dio a farle morire, come un sicario assoldato per accrescere quei profitti, è un’indecenza e una imbecillità (4). Ma, in genere, lo tsunami ha riportato al silenzio di Dio, più che alla sua eventuale logorrea. E su tale assordante silenzio sono spuntate parole di solidarietà, le sole che potessero dare una risposta a quel silenzio. Parole che in realtà non erano che supporto all’azione, perché portavano con sé un gesto: dare qualcosa, fare qualcosa, in ogni caso mettere in moto la parte migliore della propria umanità. Titolava il The Times di Londra: The season to give, la stagione del dare, invocando addirittura la nascita di una nuova cultura del dare proprio nel momento dei regali natalizi, trionfo del consumismo e dello spreco (5). E in tutto il mondo occidentale, certo non a caso, gli aiuti raccolti tra la gente hanno surclassato l’entità di quelli sborsati dalle casse degli stati. Al silenzio di Dio e alle nostre inutili parole, s’è così sostituito, almeno per qualche giorno, il gesto semplice della mano che dona. E alle denunce antiqualcosa, qualsiasi cosa, si sono sostituiti i reportage sulla solidarietà tra musulmani e cristiani, tra buddhisti e musulmani… È durata poco, è vero. Lo tsunami ormai è nel dimenticatoio e non si riesce più a imporlo sulle prime pagine. C’è l’ennesimo rapimento in Iraq, c’è un matrimonio tra reali, riprendono i campionati del mondo di automobilismo… Ma forse qualcosa è rimasto, e anche i nostri onnipotenti e bistrattati, indispensabili media qualcosa di buono l’hanno fatto in quest’occasione. 1) Avvenire, domenica 20 febbraio; 2) Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p. 51; 3) Idem, p. 69; 4) Claudio Magris, Chi nomina il nome di Dio invano, in Corriere della sera, 21 gennaio 2005; 5) The Times, editoriale del 30 dicembre 2004