Lo tsunami del consumismo
Dopo Singapore e Kuala Lumpur, mi trasferisco al Nord, a Georgetown, nell’isola di Penang, dove forse mi sarà dato di conoscere qualcosa della vera Malesia. Non che a Kuala Lumpur non ci sia, ma certamente la metropoli appare oltremodo globalizzata. E consumista al massimo grado, quasi più della città-mercato di Singapore. Basti pensare – un dettaglio, ma significativo – all’aria condizionata che viene sprecata in modo impensabile da noi nei centri commerciali, aria sparata anche in luoghi aperti: incredibile profusione di ricchezza e di spreco.
Ma c’è una questione ben più grave dell’aria condizionata, annosa questione, legata alle forme della sopravvivenza della cultura locale allo tsunami consumista che ha invaso questi Paesi asiatici. Non bisogna fare del catastrofismo primario: la mentalità capitalista estrema e le sue espressioni più appariscenti, così come la tecnologia massicciamente invasiva di questi ultimi anni, non riusciranno a distruggere le culture locali, che riemergeranno nelle forme, nei modi e nei tempi più inattesi. Penso ai villaggi delle periferie di Singapore o di Kuala Lumpur che, costituiti dalle consuete shophouse a due livelli di memoria colonialista, ma diventate parte integrante della cultura locale, sono stati distrutti per far spazio a città-dormitorio.
Ebbene, la vita sociale si è riorganizzata una seconda volta, così come due secoli fa quando i villaggi di capanne di paglia e di legno erano state sostituiti appunto dalle shophouse, adattandosi alle nuove limitazioni; oggi la vita sociale fiorisce spontanea ai piano terra dei casermoni-dormitorio. Stessi negozietti, stessi mercatini, stesso mangiare comunitario, stesse forme di pressione sociale… Le culture non muoiono, ma quando sembrano moribonde rinascono adattandosi alle nuove condizioni.
Ma certamente i danni che tali culture potrebbero patire a causa dell’attuale arrivo delle forme e delle strutture capitalistico-consumiste più spinte possono essere enormi. Certamente l’Occidente (e l’Europa che ha ispirato e provocato tutto, o quasi, checché ne dicano certi intellettuali statunitensi) sembra aver imposto i suoi modelli, se non altro estetici e merceologici. Modelli che sono il frutto di un’elaborazione secolare dalle radici greche e giudeo-cristiane: pensiamo semplicemente alla nascita delle banche in Europa, al testo di Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, al trionfo delle multinazionali… Possono ora queste strutture adattarsi al mondo orientale senza intaccare alla base le culture locali? La domanda resta aperta, apertissima. Come apertissima resta la domanda sulla solitudine globalizzata che viene imposta dal sistema capitalistico-consumista, pure in salsa orientale: nella foto che illustra quest’articolo, ripresa nella metropolitana di Singapore, si vedono quattro donne – locali ed europee – intente a usare i loro smartphone nella più perfetta solitudine pur immerse nella folla.
Titolava in questi giorni un quotidiano malese, Star: «L’eurozona può imparare dall’attuale crisi ad aprirsi al mondo». Ecco, forse solo una reale apertura dell’Europa – più unita anche politicamente ed economicamente e non solo monetariamente, please – potrebbe da una parte risolvere i suoi problemi e dall’altra diffondere di più in Oriente non solo Fendi-Louis Vuitton-Hermès-Ferragamo, ma anche la cultura che ne sta alla base. Forse è semplicemente una questione di sopravvivenza per il Vecchio Continente.