Lo strapotere del denaro

Ne abbiamo parlato giusto un anno fa, alla vigilia del G8 di Genova, dando relazione di un convegno di New Humanity sui temi cruciali dell’economia mondiale, dal titolo “Per una globalizzazione solidale verso un mondo unito”. Le idee di New Humanity allora maturate hanno continuato a diffondersi. Ce ne dà atto una serie di convegni, il più recente dei quali tenutosi in questi giorni in Portogallo con la partecipazione di eminenti personalità internazionali della politica e dell’economia. Per riportarci al cuore del discorso, pubblichiamo un’analisi di Leo Andringa, già direttore regionale della Banca centrale olandese che fu tra i relatori al congresso di Genova; seguita da una puntualizzazione di Alberto Ferrucci, reduce dal convegno di Lisbona. Miliardi di euro, dollari e yen continuano a volare da una parte all’altra del globo. Le banche ricavano profitto dalle fluttuazioni del cambio di una stessa valuta in diversi punti della Terra. Basta pigiare un bottone per ordinare di comprare denaro a Singapore e poi rivenderlo in Messico. Stanno uscendo sempre nuovi “prodotti bancari”, come opzioni, swaps, futures ed altri cosiddetti derivati, che traggono vantaggio dalla ripartizione dei rischi finanziari in tempi e luoghi diversi. Ne risulta così un fatturato in denaro senza che ad esso corrisponda una reale produzione di beni e il cui valore sociale è nullo: con esso non si ottiene una maggior produzione di pane, non vengono fabbricate un maggior numero di biciclette, non vengono costruite più case. Si è creata così una situazione assai singolare in cui il mercato internazionale in denaro è diventato cento volte più grande del totale mercato di beni reali. E proprio il mercato internazionale del denaro è il cuore del processo di globalizzazione. La cultura del denaro. Le conseguenze negative di tale fenomeno si fanno sentire sulle imprese, che non vengono più stimate in base al valore dei beni o servizi offerti. Ciò che conta è il valore che esse hanno agli occhi dei loro azionisti, il cosiddetto shareholder’s value. La sopravvivenza di un’azienda è strettamente legata alla garanzia che essa dà ai suoi azionisti di un guadagno sempre più grande. È il trimestre seguente che conta. Sono spesso l’annuncio di forti tagli alle spese e i licenziamenti in massa a fare un’ottima impressione agli occhi della borsa. L’abbassamento dei costi è sinonimo di maggior profitto per gli azionisti. Sono sempre più ricercati energici manager ai quali vengono offerte grosse ricompense opzionali. Nasce così la cultura del denaro. A quale scopo aprire ad esempio una fabbrica, dar lavoro alla gente, se si possono far soldi facilmente e senza fatica giocando in borsa? Gli imprenditori sono sempre più costretti a confrontarsi con la tensione che si crea tra il loro ruolo come uomini d’affari da una parte e come credibili datori di lavoro dall’altra; e in più con il ruolo della loro vita privata come padri o madri. Nella famiglia gli uni si prendono cura degli altri, ma la cultura del dare e della condivisione non è più compatibile con la cultura del mondo imprenditoriale. Le forze politiche, per mantenere la competitività del proprio mondo economico, fanno di tutto per diminuire la pressione fiscale sulle imprese. E questo a danno dei sistemi di previdenza sociale, salute, educazione. La cultura del denaro sta penetrando anche in altri settori come in quello dello sport. Le case farmaceutiche fanno sempre più pressione sui medici affinché prescrivano i loro farmaci. Il mondo economico sponsorizza la ricerca su come aumentare la dipendenza dei bambini dalla pubblicità televisiva. Sta prendendo sempre più piede il crony-capitalismo in cui le forze politiche e quelle economiche si passano la palla. Ma l’altra faccia ben più amara della medaglia sono le conseguenze disastrose per i paesi poveri. Esiste un rapporto stretto tra cultura del denaro e impoverimento in gran parte della Terra, come in Africa. Più soldi, più voti. Alla fine della seconda guerra mondiale, a Bretton Woods, i paesi ricchi decisero di stabilire nuove regole per il sistema monetario. Nacquero così il Fondo monetario internazionale (Fmi), destinato ad aiutare i paesi in difficoltà economica temporanea, e la Banca mondiale, che avrebbe procurato ai paesi poveri i capitali a loro necessari. Ma, sia all’interno dell’ Fmi che della Banca mondiale, il diritto di voto venne stabilito sulla base della ricchezza nazionale, perciò: più soldi è uguale a più voti. In questo modo gli Stati Uniti hanno il 17,5 per cento di tutti i voti. E siccome le decisioni importanti devono essere prese con l’85 per cento dei voti, gli Usa hanno di fatto il diritto di veto. Mancava anche una buona regolamentazione del mercato mondiale. I paesi ricchi ritengono importante per la propria crescita mantenere bassi i prezzi delle materie prime. I paesi poveri, produttori di materie prime, avrebbero invece proprio bisogno per il loro sviluppo di entrate da prezzi più alti. I paesi ricchi bloccano una buona regolamentazione del mercato delle materie prime e sovvenzionano la propria agricoltura. La ricchezza nel mondo dal 1950 si è sestuplicata, mentre nello stesso periodo nel più gran numero dei paesi, soprattutto in Africa, i redditi sono diminuiti. Il dislivello ha raggiunto dimensioni assurde negli ultimi dieci anni. Un abitante della Terra su quattro deve vivere con meno di un dollaro al giorno. Il problema dei debiti. Molti dei paesi in via di sviluppo hanno seguito negli anni Settanta il modello di sviluppo raccomandato dai paesi ricchi. Si investiva inoltre prima di tutto in grossi progetti (centrali atomiche, dighe, aeroporti). Ma quando alla fine degli anni Settanta il ciclo economico cambiò andamento e i tassi di interesse (anche su prestiti del passato) cominciarono a crescere a dismisura, per i paesi poveri diventò difficile restituire i debiti. Per evitare una crisi finanziaria generale intervennero il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, offrendo ai paesi indebitati nuovi prestiti (a più alto tasso di interesse), ma a condizione che essi applicassero un “adeguamento strutturale”. Questo regime vige tuttora, anche se il termine viene evitato. Esso costringe i paesi indebitati ad incrementare forzatamente le loro esportazioni, e a frenare le importazioni, diminuendo tra l’altro il valore della loro moneta (svalutazione), e riducendo la spesa pubblica. Così facendo essi avrebbero potuto ripristinare le loro esportazioni, restituire i debiti e ricevere così nuovi prestiti. Non si tenne però conto del fatto che una tale politica di esportazione per tanti paesi poveri allo stesso tempo avrebbe avuto come conseguenza un ulteriore calo dei prezzi dei loro prodotti di esportazione. E i debiti si sono moltiplicati. A causa dei tagli sulle spese pubbliche, i governi sono stati costretti a diminuire le spese per la sanità e l’educazione, con drammatiche conseguenze per i poveri in Africa. Tre istituzioni chiave Per impedire che i deboli vengano danneggiati, è compito del governo vigilare sul sistema monetario. Ma che fare se i governi nazionali a causa della globalizzazione perdono il controllo sul sistema monetario e non esistono istituzioni internazionali in grado di assumerne la responsabilità? Una revisione del sistema monetario mondiale è più che mai urgente. L’olandese Jan Tinbergen, Nobel per l’economia, presentò a suo tempo una proposta semplice ma geniale al riguardo. Egli fece notare che un paese ben governato fa uso di tre istituzioni finanziarie chiave: una banca centrale che sorveglia che il denaro circolante abbia più valore possibile; banche che sulla base dei risparmi dei cittadini aprono possibilità di investimento alle imprese; e un ministero delle Finanze che riscuote le tasse e spende secondo i piani e le priorità accordate. Cassa del Tesoro mondiale e tassazione planetaria Il problema è che il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale sono nati al tempo in cui la maggior parte dei paesi poveri erano ancora colonie. Questi due organismi fanno perciò soprattutto gli interessi dei paesi ricchi. L’applicazione del principio democratico esige che le modalità decisionali e l’attenzione vengano spostate nella direzione della maggioranza della popolazione mondiale. Di conseguenza anche la riscossione delle tasse deve essere regolata su scala mondiale come sa fare un ministero delle Finanze. Tinbergen auspicava un world treasury, una cassa del tesoro mondiale. In quanto la giusta ripartizione dei beni, il mantenimento dell’ ordine pubblico internazionale e la protezione dell’ambiente non possono più essere garantiti che a livello mondiale. Egli sosteneva anche l’introduzione di un nuovo tipo di denaro basato sul valore di una trentina di materie prime invece che solo sull’oro o sul dollaro. Le sue proposte risalgono al 1964. Se fossero state accolte e introdotte, esse avrebbero forse portato ad un prezzo più alto e più stabile delle materie prime nel mondo, evitando così la crisi del debito dei paesi poveri. L’idea di una tassa su scala mondiale per far fronte alla spesa pubblica mondiale, è venuta a James Tobin, altro Nobel per l’economia: una tassa legata al traffico finanziario internazionale. Con la cosiddetta Tobin tax, fissata sull’esigua tariffa dello 0,2 per cento su tutte le transazioni finanziarie internazionali, non solo si ricaverebbero miliardi di dollari, ma si otterrebbe anche una riduzione dei movimenti speculativi di capitali nel mondo, i quali producono un effetto devastante proprio nei paesi più poveri. Il fondamento giuridico per una tale tassazione ci sarebbe. Infatti, se il denaro è diventato un “prodotto”, perché non dovrebbe essere tassato come tutti gli altri prodotti? Il mezzo più efficace a breve termine per venire in aiuto ai paesi in via di sviluppo è offerto dallo strumento dei diritti speciali di sorteggio special drawing rights (un potere del Fondo monetario internazionale per l’autorizzazione dei prestiti). Al vertice di Monterrey del marzo scorso sul finanziamento degli aiuti allo sviluppo, questa opzione è stata nuovamente presentata. Ma gli Stati Uniti si sono schierati contro l’ applicazione di questo strumento. Ci sono in gioco grossi interessi, ma anche grosse necessità. Gli impegni che vengono chiesti alle forze politiche sono rilevanti, ma indispensabili perché la globalizzazione sia al servizio dell’uomo.

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