Lo stato dei rapporti tra Italia e Libia nel caso Almasri
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Lo “strano caso” di Osama Almasri, il cittadino libico arrestato a Torino il 19 gennaio e poi prontamente rilasciato e rimpatriato a Tripoli il 21 dello stesso mese, è al centro di un serio contenzioso tra il governo italiano e la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja, che ha spiccato un mandato di cattura contro Almasri per aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità. La vicenda mette in evidenza, tra l’altro, i difficili rapporti tra l’esecutivo Meloni e parte della magistratura italiana, che contesta platealmente la riforma voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio; con il rischio di confondere le acque ed uscire dal merito della questione.
Perché un alto funzionario della polizia libica, accusato di gravissimi reati dalla Cpi, ha potuto girare indisturbato ad inizio anno per mezza Europa – tanto da recarsi allo stadio per vedere la partita Juventus Milan del campionato di calcio italiano? Quali sono le ragioni di una tale impunità? E perché, una volta arrestato, è stato prontamente rilasciato per essere trasferito d’urgenza nel suo Paese, dove le autorità lo hanno accolto festosamente?
È perciò importante prestare attenzione al dibattito avvenuto in Parlamento il 5 febbraio, dopo la richiesta di chiarimenti avanzata insistentemente da parte delle opposizioni; che hanno cercato in ogni modo di far valere la responsabilità diretta di Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio, tuttavia, non si è presentata in aula, ma ha usato, invece, in maniera efficace i media e i social per contestare la comunicazione ricevuta dal procuratore di Roma Francesco Li Voi in merito all’invio al Tribunale dei ministri della denuncia ricevuta dall’avvocato Luigi Li Gotti che accusa Meloni, Nordio e il ministro degli Interni Matteo Piantedosi dei reati di favoreggiamento e peculato commessi nel caso Almasri. La questione è destinata ad ingarbugliarsi, con tanto di contro accuse e denunce verso Li Voi e Li Gotti.
Ciò che conta, come detto, è il merito della questione posta in una conferenza stampa promossa presso la Camera dei Deputati dall’associazione dei rifugiati in Libia che sono riusciti a sfuggire dai luoghi di detenzione e tortura. La loro accusa contro Osama Almasri è diretta e inequivocabile: si basa sulla testimonianza diretta di vittime e testimoni di crimini orrendi, come hanno riferito David Yambio e Lam Magok con tanto di materiale fotografico. Fuggiti dalla guerra in Sud Sudan, i due esponenti del collettivo Refugees in Libya hanno raccontato delle sevizie subite nel carcere dove sono stati condotti dopo essere stati catturati dalla guardia costiera libica – finanziata dall’Italia grazie al memorandum del 2017, accordo più volte rinnovato dai diversi governi di passaggio a palazzo Chigi. Qui il link per ascoltare la loro testimonianza.
Dal resoconto stenografico del dibattito avvenuto nell’aula della Camera lo scorso 5 febbraio emergono elementi necessari per un serio confronto capace di andare oltre la cronaca veloce che passa sui media, con lo spazio principale offerto alle fasi concitate e polemiche.
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha rivendicato il suo ruolo istituzionale che non è quello di “passacarte” degli atti che arrivano dalla Corte Penale internazionale, rilevando le anomalie e contraddizioni di un mandato di arresto della CPI «assolutamente contraddittorio» perché impreciso sui tempi di commissione degli atroci delitti. Secondo Nordio.
Anche la giudice Liera del Cpi «si era accorta di questo e nella sua dissenting opinion aveva detto che mancava la giurisdizione», tanto che il ministro parla di un «immenso pasticcio» compiuto dalla Cpi. La Corte d’appello avrebbe quindi rilasciato l’inquisito di fronte ad «un arresto che, secondo i principi generali della procedura penale, era irrazionale e contraddittorio nell’elemento fondamentale della struttura del reato, che è quello del tempo del delitto commesso».
Il ministro degli interni Piantedosi ha contestato il fatto che il procuratore della Corte penale internazionale aveva formulato già dal 2 ottobre 2024 «una richiesta di mandato di arresto internazionale per la commissione da parte di Almasri di crimini di guerra e contro l’umanità quale membro delle forze speciali di deterrenza libiche in base a Mitiga», anche se poi «la Corte penale ha dato seguito a tale richiesta emettendo il mandato di arresto soltanto il 18 gennaio, quando Almasri si trovava in territorio italiano».
Anche l’Interpol, l’organizzazione internazionale della polizia criminale, come riferisce Piantedosi, ha escluso l’Italia dalla «cosiddetta nota di diffusione blu» che invita le forze dell’ordine di seguire la persona inquisita. «Sottolinea, in particolare, la necessità di non mettere in allarme la persona e di non arrestarla, in quanto avente lo status di testimone». Il funzionario libico è passato da Londra a Bruxelles passando anche in Francia e Germania senza essere arrestato, anche se fermato il 15 gennaio per controlli dalla polizia.
«È solo alle ore 22,55 del 18 gennaio, cioè 3 giorni dopo il controllo del 15, e nella notte tra sabato e domenica, che la Corte penale internazionale chiedeva al Segretariato Generale Interpol di Lione di sostituire la nota di diffusione blu con una nota di diffusione rossa, ovvero contenente indicazioni per l’arresto», rivolta anche all’Italia stavolta, che è riuscita prontamente tramite la Digos ad eseguire il provvedimento di arresto richiesto dalla Corte penale internazionale trasferendo Almasri «alla locale casa circondariale Lorusso e Cutugno. Ha, quindi, messo l’arrestato a disposizione dell’autorità giudiziaria competente, ossia la corte di appello di Roma e la procura generale presso la corte di appello di Roma» che poi non ha convalidato l’arresto accogliendo l’opposizione del difensore di Almasri e di atri tre libici rimasti ignoti alle cronache.
Per questo motivo, come ha detto Piantedosi, «il 21 gennaio ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato». Per quali motivi? «In buona sostanza, si è reso necessario – ha detto il ministro degli Interni – agire rapidamente proprio per i profili di pericolosità riconducibili al soggetto e per i rischi che la sua permanenza in Italia avrebbe comportato, soprattutto con riguardo a valutazioni concernenti la sicurezza dei cittadini italiani e degli interessi del nostro Paese all’estero, in scenari di rilevante valore strategico, ma, al contempo, di enorme complessità e delicatezza».
Nel corso del dibattito è arrivato da un deputato della maggioranza, Giorgio Mulè di Forza Italia, la descrizione degli interessi del nostro Paese posto che all’irrituale «arresto di Almasri avrebbe corrisposto la condanna, anche a pene sconosciute alla civiltà giuridica italiana, di chissà quanti dei 1.500 italiani presenti oggi in Libia o anche la ritorsione con atti violenti nel nostro territorio».
«La Libia, non da ora, è un cimitero dei diritti e delle garanzie e questo lo sappiamo e lo sapete. È il Paese dove si tortura, dove si è ucciso ricorrendo alla decapitazione e alla crocifissione» ha precisato Mulè, ricordando la responsabilità del governo Gentiloni che ha siglato il Memorandum italo libico nel 2017 «mentre l’ONU, le associazioni non governative e la flebile voce di chi riusciva a sopravvivere a quelle sevizie, di cui già il generale Almasri era protagonista, vi raccontavano ciò che era la Libia».
Quel Memorandum, riconfermato più volte dai successivi governi italiani, è il convitato di pietra dell’intera questione che lega il nostro Paese al governo di Tripoli. Quell’accordo è stato, infatti, difeso nella discussione da Ettore Rosato di Azione ( già Italia Viva e Pd) ribadendo che per poterlo portare a compimento nella gestione dei centri per i migranti sarebbe stato necessario aderire alla proposta avanzata il 7 maggio 2019, dal presidente del Consiglio della Libia, al-Sarraj, all’allora presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte «di mandare truppe di assistenza militare italiane in Libia. Noi non abbiamo risposto. Ci sono andati i turchi, che hanno mandato 3.000 miliziani siriani».
L’interesse nazionale tutelato dall’espulsione del funzionario libico è, invece, secondo Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi e Sinistra, quello «di difendere i nostri accordi in materia energetica che coinvolgono grandi aziende di questo Paese, l’ENI in testa. L’interesse nazionale ha che fare con il controllo delle migrazioni? Sono tutti temi molto seri, e non venite a dirci che noi siamo anime belle che non ci preoccupiamo delle grandi questioni della realtà, che è dura e cinica».
Circa il Memorandum, Fratoianni non fa sconti rivolgendosi al governo. «Voi avete appaltato la tutela del nostro interesse nazionale ad una banda di tagliagole, di stupratori di assassini, a criminali di guerra, a criminali contro l’umanità, e di questo – mi dispiace – ma dovrete rendere conto, voi come altri prima di voi».
Nel dibattito non sono mancate polemiche e attacchi diretti. Giovanni Donzelli di FdI ha ricordato l’ambiguità della sinistra riportando il caso recente dell’arresto del tesoriere del partito Democratico in Campania, Nicola Salvati, per motivi legati alla gestione degli immigrati, contestando il richiamo retorico all’umanità quanto invece a contare sono «gli incredibili interessi economici che ci sono da parte delle mafie, delle cooperative rosse».
«La differenza tra noi e voi» gli ha risposto la segretaria del Pd Elly Schlein «è che noi ieri abbiamo immediatamente rimosso e sospeso quel tesoriere, mentre voi avete una ministra che è indagata per truffa aggravata ai danni dello Stato, rinviata a giudizio, e Giorgia Meloni non riesce a farla dimettere» scappando dalle sue responsabilità.
Entrando nel merito delle tesi dei due ministri, li ha invitati a non nascondersi nel giuridichese. «In qualsiasi momento lei – rivolgendosi a Nordio – poteva trasmettere gli atti ed evitare la scarcerazione, ma non lo ha fatto. Chi le ha chiesto di stare fermo, ministro? È stato Palazzo Chigi?». «Se Almasri rappresenta una minaccia per la sicurezza in Italia, perché non in Libia, dove lo avete mandato a continuare a torturare? E poi, se erano tanto sbagliate le accuse della Corte penale internazionale, perché lo avete rimpatriato con urgenza? Mettetevi d’accordo».
La Schlein si è rivola all’assente Meloni chiedendo: «Ha dato lei l’ordine di riaccompagnare a casa il torturatore libico? Presidente Meloni, delle due l’una: o lei ha guidato questa filiera di comando e se ne assume la responsabilità, oppure non ha più il controllo, e, dunque, ne tragga le conseguenze. Doveva esserci lei oggi qui, perché quello che hanno detto i suoi ministri non è una risposta».
La vicenda del libico arrestato e poi messo in libertà, nonostante l’ordine di cattura emesso dalla Corte penale internazionale, è destinata ad incrinare il rapporto di questa istituzione con il governo italiano che tra l’altro, tramite il ministro degli Esteri Tajani, ha preannunciato che non darà mai seguito alla richiesta d’arresto contro il premier israeliano Netanyahu. Già si annuncia un contenzioso a partire dal caso Almrasri.
Ma ciò che non può essere rimosso è la necessità di una reale messa in discussione del nostro rapporto con il governo di Tripoli. Va in questo senso la richiesta avanzata da Riccardo Magi di +Europa di «una commissione parlamentare d’inchiesta – ci dica il governo con quale altro modo – sull’attuazione degli accordi Italia-Libia».
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