Lo sposo scomparso
Un tonfo sordo. Ancora lo sento nel buio mentre dormo – così comincia il suo racconto Maria Adduci – e di colpo mi sveglio. È il 18 luglio di quattro anni fa. Niente faceva prevedere quello che sarebbe successo. È una tranquilla domenica mattina come tante altre. Mio marito Bepi si sente male, ha forti dolori alle gambe e alle braccia. Niente di più normale. Bepi Bari, 68 anni, è uno sportivo di razza, appassionato di ciclismo. È uno di quelli che va veloce. Pochi giorni prima si era allenato con un professionista su e giù per le colline della sua città, Verona. Solo per scrupolo chiamano la guardia medica che tergiversa e risponde con sufficienza, indicando come terapia 15 gocce di valium. Bepi si rifiuta di andare al pronto soccorso, tanto lo fanno aspettare a lungo. Ma in pochi secondi peggiora, comincia a sudare freddo. Si intensificano le telefonate ai medici. Bandiera bianca o tappeto rosso? E un’ambulanza parte a sirene spiegate. Improvvisamente il tonfo. Bepi cade a terra come morto. Il suo cuore si ferma e non batte più per alcuni minuti, troppi minuti. Il ritardo dell’ambulanza è fatale. I danni alla corteccia cerebrale sono irreversibili. Quando l’ambulanza arriva sembra passata un’eternità, ma la vita di Maria è cambiata in un attimo. Bepi è già in coma. Da quel momento comincia un calvario fatto di una via crucis di medici, ospedali, terapie, debiti, fatica, solitudine che dura ancora oggi finché morte non ci separi. Maria e Bepi festeggiano quest’anno 25 anni di matrimonio. Quando si incontrano per la prima volta lui è vedovo, con una figlia e impiegato alla Bmw, lei è archivista de Il Giorno, storico quotidiano milanese. Il loro è un matrimonio di due adulti: quando si sposano lei ha 45 anni, lui 48. Maria è piena di vita, solare, gioviale, generosa; Bepi è allegro, ma più timido e segnato da un lutto in famiglia che lo condizionerà per tutta la vita. La Seconda guerra mondiale è appena finita. Con la sorella, tre anni maggiore di lui, si dirige verso un quartiere periferico di Verona per fare una commissione. Per gioco alcuni ragazzi raccolgono da terra una pistola e fanno per scherzo il gesto di sparare, ma il colpo parte sul serio. La sorella, ricoperta di sangue, muore tra le sue braccia. Il matrimonio fa bene ad entrambi ma non sana tutte le ferite. I primi anni sono difficili, anche se la loro è una bella famiglia. Prima di sposarsi Maria aveva cominciato ad aiutare due bambini disagiati, ed ora li prendono in affido temporaneo e li seguono come dei figli. Dapprima vivono a Milano, poi si trasferiscono a Verona. Da quattro anni Bepi è nella struttura di Negrar, Opera Don Calabria, in Valpolicella, appena fuori Verona. Dal coma è uscito quasi subito grazie agli stimoli ricevuti ed ora è in uno stato di minima percezione. In Italia si stima che come lui ci siano 1500 persone, ma non fanno notizia e clamore come chi chiede la morte libera. Tutto questo – racconta Maria – mentre attorno c’è il silenzio per noi familiari che viviamo per loro, li accarezziamo, li massaggiamo con oli profumati, passeggiamo con loro ogni giorno nel parco. Ma siamo soli a dar loro voce e abbiamo bisogno di più attenzione. Maria non è il tipo che si arrende facilmente e scrive una lettera anche al presidente della Repubblica dove esprime la paura di perdere la possibilità delle cure dei propri cari per mancanza di fondi e di posti letto. Giorgio Napolitano risponde con parole di condivisione per vicende dolorose e toccanti, con umana partecipazione e assoluta considerazione della dignità del valore della vita. Non mancano anche i momenti di sconforto assoluto: un giorno succede che ero accanto a lui – racconta Maria – e mi sono accorta che non respirava più. Chiamo l’infermiera che gli fa in vena un cortisone salva vita. Bepi si riprende, ma in quel frangente non ce la faccio più. Mi chiedo qual è la differenza tra la morte e la vita. Mi sento preparata a perderlo e mi domando cosa è giusto per lui quando lo vedo soffrire così. Capisco quelli che vogliono morire, anche se io sono per la vita. È il primo sfogo dopo tre anni e mezzo di accompagnamento costante al marito, nella buona e nella cattiva sorte. Maria esce dall’ospedale e va con le sue amiche del reparto a pregare il rosario. Lì ascolta delle parole attribuite alla Madonna: Vi voglio vivi. Un altro momento fondamentale. Capisce che non deve guardare al suo dolore, ma vivere per gli altri. E comincia un girovagare per il Paese, conosce l’associazione Gli amici di Luca di Bologna, Risveglio di Roma, Gli amici di Simone di Rovereto, entra in contatto con un gruppo della Puglia in sciopero della fame per mancanza di attenzione dello Stato verso le persone in stato vegetativo. Va più volte in televisione: Questa nuova energia me l’ha data Dio e la vicinanza ai Focolari che ho condiviso con mio marito, non certo per farmi un nome, ma per dare voce a chi non ce l’ha e far conoscere le problematiche relative a queste persone . Se Dio lo vuole o lo permette – conclude serena – avrà un senso, perché, su questo non ci sono dubbi, sono persone vive e ogni sacrificio è ripagato dal rapporto misterioso che c’è con mio marito. Io vivo per lui e lui per me.