Lo spirito di fratellanza nella politica come chiave dell’unità dell’Europa e del mondo
Signor Sindaco di Innsbruck, dott. van Staa,
Signor Presidente della Commissione europea, prof. Romano Prodi,
Signor Presidente della Repubblica, dott. Klestil,
Signori Sindaci e Amministratori,
Signori Parlamentari,
Signore e Signori,
è un grande onore per me rivolgere la parola a una così qualificata assemblea che, attraverso le loro persone, rappresenta, in questa sala, diversi popoli e molte città.
Ringrazio perciò di cuore dell’invito, e cercherò di esserne il meno indegna possibile.
Il titolo della conversazione che devo ora svolgere recita così: “Lo spirito di fratellanza nella politica come chiave dell’unità dell’Europa e del mondo”.
Lo spirito di fratellanza!
Quando mi è stato suggerito questo tema, l’estate scorsa, non avrei mai immaginato quali terribili avvenimenti sarebbero successi prima che lo potessi loro proporre.
Soprattutto quale straordinaria conferma essi avrebbero portato, nella loro tragicità, alla necessità nel mondo della fratellanza, e in particolare della fratellanza in politica.
Era l’11 settembre: le torri gemelle di New York erano crollate. Veniva distrutto così il simbolo della più potente nazione del mondo, con una grande strage di vite umane.
Sgomento generale, infinito negli USA e non solo.
Ma ecco, da quel groviglio di dolore, da quella notte piombata in piena luce, era emerso un fenomeno inconsueto: una gara di solidarietà mai vista. New York si era trasformata: muri di indifferenza si erano sciolti in una valanga di aiuti concreti, di conforto, di prontezza a far qualcosa che allevi i dolori degli altri.
Gli Stati Uniti, Paese multi-religioso, multi-etnico, multi-culturale, avevano presentato al mondo, in una sua città, un modello di solidarietà, di unità.
Ed è stato come se gli occhi di un popolo si fossero spalancati e avessero visto, in pochi momenti, la necessità assoluta che si instauri dovunque la fraternità universale.
La fraternità universale, anche prescindendo dal cristianesimo, non è stata assente dalla mente di qualche raro spirito forte. Il Mahatma Gandhi diceva: “La regola d’oro è di essere amici del mondo e considerare ‘una’ tutta la famiglia umana. Chi distingue tra i fedeli della propria religione e quelli di un’altra, diseduca i membri della propria e apre la via al rifiuto e all’irreligione”2.
Ed è presente tuttora in qualche grande anima come il Dalai Lama che, a proposito di quanto è successo negli Stati Uniti, scrive ai suoi: “Per noi le ragioni (degli eventi di questi giorni) sono chiare… Non ci siamo ricordati delle verità umane più basilari… Siamo tutti uno. Questo è un messaggio che la razza umana ha grandemente ignorato. Il dimenticare questa verità è l’unica causa dell’odio e della guerra, e il modo di ricordarlo è semplice: amare in questo momento e sempre”.
Ma chi ha portato la fraternità come dono essenziale all’umanità, è stato proprio Gesù, che ha pregato così prima di morire: “Padre, che tutti siano uno” (cf. Gv 17, 21). Egli, rivelando che Dio è Padre, e che gli uomini, per questo, sono tutti fratelli, introduce l’idea dell’umanità come famiglia, l’idea della “famiglia umana” possibile per la fraternità universale in atto. E con ciò abbatte le mura che separano gli “uguali” dai “diversi”; gli amici dai nemici; che isolano una città dall’altra. E scioglie ciascun uomo dai vincoli che lo imprigionano, dalle mille forme di subordinazione e di schiavitù, da ogni rapporto ingiusto, compiendo in tal modo un’autentica rivoluzione esistenziale, culturale e politica.
L’idea della fraternità iniziò così a farsi strada nella storia. E si potrebbe ripercorrere l’evoluzione del pensiero delle diverse epoche, rintracciandone la presenza, alla base di molte fondamentali concezioni politiche, a volte palese, altre volte più nascosta. Una fraternità spesso vissuta, anche se in maniera limitata, ogniqualvolta, ad esempio, un popolo si è unito per conquistare la propria libertà, o quando gruppi sociali hanno lottato per difendere un soggetto debole, o in ogni occasione in cui persone di convinzioni diverse hanno superato ogni diffidenza per affermare un diritto umano.
Quanto poi sia centrale, per la politica, la scoperta della fraternità, lo dice anche quell’importante evento storico che costituisce uno spartiacque tra due epoche: la Rivoluzione francese. Nel suo motto: “Libertà, uguaglianza, fraternità”, essa sintetizza il grande progetto politico della modernità, anche se essa stessa ha inteso i tre principi in un modo molto riduttivo.
Inoltre, se poi numerosi Paesi, arrivando a costruire regimi democratici, sono riusciti a dare una certa realizzazione alla libertà e all’uguaglianza, la fraternità, in particolare, è stata più annunciata che vissuta.
Ma la Rivoluzione francese, nonostante le sue contraddizioni, aveva intuito quel che le esperienze successive hanno dimostrato: i tre principi stanno o cadono insieme; solo il fratello può riconoscere piena libertà e uguaglianza al fratello.
Non si può più, dunque, guardare alla fraternità come a qualcosa di ingenuo, o di superfluo, o che si aggiunga alla politica dall’esterno.
I fondamenti dell’Europa
Per realizzare il grande progetto dell’unità europea, vivere la fraternità è necessario, anche se difficile.
Dobbiamo però ricordare che questo progetto non nasce oggi. Esso parte da lontano.
Prendiamo, ad esempio, il manipolo di santi scelti come patroni dell’Europa. Patroni perché fondatori di essa, i quali, in momenti cruciali della storia, seppero intervenire piantando i pilastri e tracciando le fisionomie di quella che oggi noi chiamiamo Europa.
Tra il V e il VI secolo, in uno dei periodi più critici per il continente, Benedetto da Norcia propose ai suoi contemporanei un nuovo modello di uomo che, se da una parte è completamente immerso in Dio, dall’altra forgia gli attrezzi e lavora la terra. La fraternità monastica, a partire da Benedetto, crea una rete di centri spirituali, economici e culturali attorno ai quali rinasce l’Europa. Rinascita spirituale e insieme sociale.
Si aggiunge in questo movimento, ampliandolo verso l’Est, l’azione dei fratelli Cirillo e Metodio, che nel IX secolo impressero un’impronta indelebile nei popoli slavi, ideando una scrittura che ne esprimesse la lingua. Inserirono così più profondamente questi popoli nella comunione ecclesiale e salvarono, al contempo, la loro identità culturale. Applicarono, in questo modo, nei fatti, il modello cristiano di unità nella distinzione che appartiene al DNA dell’Europa e che continua a essere il punto di riferimento nel cammino da compiere.
E in un momento in cui l’Europa – rotti i precedenti assetti feudali, ma ancora priva di un nuovo equilibrio – sembrava aver smarrito il senso della propria unità spirituale, Brigida di Svezia e Caterina da Siena si rivolgevano ai potenti del loro tempo con una autorità d’amore che ricordava il loro vero fine di servire la giustizia.
E ancora, con Edith Stein, quasi una nostra contemporanea, la santità si è calata nel profondo dell’orrore che sconvolgeva l’Europa, unificando, nel suo sacrificio personale, una duplice fedeltà: al suo popolo e alla sua fede. Morì come monaca cristiana; ma morì perché ebrea. E pose così la pietra angolare di una casa europea nella quale tutte le religioni possono concorrere a costruire la fratellanza.
C’è santità alle radici dell’Europa: e non solo di quella che la storia ci consegna, ma anche dell’Europa che noi oggi stiamo costruendo, come ci è testimoniato da alcune delle figure dei padri dell’Europa unita: Robert Schuman e Alcide De Gasperi. Per essi è stato avviato il processo di canonizzazione che testimonia la loro santità, nel corso del quale si sta accertando, in particolare, come essi abbiano vissuto in maniera eroica non solo le virtù religiose, ma quelle civili che la loro professione politica richiedeva.
E se ritorniamo alla loro ispirazione originaria, al loro modo di intendere l’unità europea, possiamo trovare una luce per meglio concentrarci sull’obiettivo.
Il primo passo fu la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Ma la fusione delle produzioni di carbone e di acciaio non fu motivata dall’obiettivo di realizzare un “affare economico”. Fu definita invece una “solidarietà di produzione” che rendesse impossibile ogni forma di guerra tra Francia, Germania e gli altri Paesi che vi avrebbero aderito. Lo scopo era, dunque, la pace, salvaguardare la fraternità, e l’economia il mezzo. Come dichiarò Konrad Adenauer davanti al Bundestag nel giugno 1950: “L’importanza del progetto è soprattutto politica e non economica”.
E questo primo obiettivo, riguardante un settore industriale di primario interesse, era considerato solo una tappa verso l’effettiva unificazione economica dell’Europa, anch’essa a sua volta intesa – sottolineava Robert Schuman echeggiando anche le idee di Jean Monnet – come “il fermento di una comunità più profonda tra Paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni”3.
E che neppure l’Europa fosse il fine ultimo di questo sforzo di comunione, è esplicitamente dichiarato nel primo atto ufficiale del progetto, la “Dichiarazione Schuman”: “L’Europa, con maggiore copia di mezzi, potrà continuare la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano”4.
Nella visione dei fondatori, l’Europa dunque è una famiglia di popoli fratelli, non però chiusa in se stessa, ma aperta a una missione universale: l’Europa vuole la propria unità per contribuire, poi, all’unità della famiglia umana.
L’Europa unita, dunque, per arrivare a un mondo unito.
Un mondo unito?
Sogno, si può pensare, specie in quest’ora. Utopia. Non del tutto, però, se un Papa, l’attuale, così si è espresso con i nostri giovani pochi anni fa: “Davvero questa sembra la prospettiva che emerge dai molteplici segni del nostro tempo: la prospettiva di un mondo unito. È la grande attesa degli uomini di oggi… e, nello stesso tempo, la grande sfida del futuro. Ci accorgiamo che verso l’unità si sta procedendo sotto la spinta di un’eccezionale accelerazione”5.
Accelerazione data anche, forse, da circostanze che sembrano e ne sono la negazione. Ma che tutto possa cooperare al bene per chi crede, non è, paradossalmente in questo momento, pensiero di pochi.
E la Chiesa lo afferma da tempo, parlando di un nuovo ordine mondiale, di un nuovo ordine economico, di globalizzare la solidarietà. Questi campanelli d’allarme attuali ci fanno capire che questi ideali non sono soltanto opzioni facoltative, ma qualcosa che riguarda il cammino dell’uomo sulla terra.
Strumenti d’unità
Ma come, intanto, proseguire l’opera di coloro che attraverso i secoli hanno costruito l’Europa?
Per suscitare la fraternità in Europa, per darle un’anima che generi un’unità spirituale, garanzia dell’unità politica, economica, ecc., non mancano gli strumenti. Basta saperli individuare.
Uno, la cui efficacia non è ancora del tutto scoperta, è quello dell’apparire dopo i primi decenni del ‘900, in nazioni soprattutto europee (Spagna, Francia, Germania, Italia, e non solo nella Chiesa cattolica), di decine e decine di nuovi Movimenti e Comunità ecclesiali che, perché fondati o prevalentemente composti da laici, non mancano d’un sentito, profondo interesse per il vivere umano e di una ricaduta nel campo civile, offrendo concrete realizzazioni politiche, economiche, ecc.
Sono realtà, queste, venute in piena luce appena tre anni fa6, quando la Chiesa si è riscoperta e ripresentata al mondo costituita, oltre che dall’aspetto istituzionale, anche da quello carismatico, coessenziale al primo. Aspetto che ha arricchito i secoli di Movimenti spirituali (come quello francescano) e delle più varie correnti di pensiero e di spiritualità, atte a riportare la cristianità, spesso illanguidita e secolarizzata dal contatto col mondo, all’autenticità e alla radicalità del Vangelo.
Autenticità e radicalità soprattutto di quello straordinario amore evangelico, materia prima per la fraternità, che va rivolto a tutti, quindi anche al nemico, che sa prendere sempre coraggiosamente l’iniziativa, che non è mero sentimentalismo ma concreto agire, che tratta tutti da uguali; che, vissuto da più, diventa reciproco e genera appunto fraternità, unità.
Questi Movimenti, seguendo ognuno il proprio carisma, concretizzano l’amore in tante forme, ma, soprattutto, parecchi di questi manifestano la forza dello Spirito, sempre attento alle necessità del momento, con la capacità che hanno di aprire a tutti gli uomini e donne del nostro pianeta un dialogo profondo.
E quattro sono oggi i dialoghi veramente necessari anche per la fraternità in Europa: il dialogo all’interno di ogni Chiesa cristiana, che è già iniziato anche per opera dei nuovi Movimenti ecclesiali; il dialogo ecumenico che aiuta il ricomporsi dell’unità nell’unica Chiesa; il dialogo con le persone delle altre religioni: musulmani, ebrei, buddisti, ecc., oggi presenti anche in Europa per le ondate immigratorie e gli interscambi legati alla globalizzazione. Dialogo attuabile per la cosiddetta “regola d’oro”, comune a tutte le principali religioni della terra, che dice: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” (cf. Lc 6, 31). Regola d’oro che in fondo vuol dire: ama. E se noi, perché cristiani, amiamo, ed essi pure amano, ecco l’amore reciproco, da cui fiorisce la fraternità anche con loro.
Dialogo infine con i nostri fratelli – e sono forse i più – che non professano una fede religiosa, ma hanno iscritta pure essi nel DNA della loro anima la spinta ad amare.
Oggi, poi, la chiamata a operare alla fraternità è partita dalla voce autorevole di Giovanni Paolo II il quale, il 6 gennaio scorso, ha proposto a tutti i cristiani, nella Lettera Novo millennio ineunte, la cosiddetta “spiritualità di comunione” che la rende possibile.
Spiritualità che, già presente nella Chiesa da 60 anni circa in uno dei Movimenti, quello dei Focolari, ma limitata a esso, ora, assunta dal Santo Padre, poteva e doveva animare la Chiesa intera e oltre.
Il suo segreto sta nel fissare lo sguardo e imitare Colui che è stato l’artefice della fraternità e della ricomposizione dell’unità di tutti gli uomini, in Dio e fra loro, il Crocifisso, che grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46).
Noi tutti, uomini, eravamo staccati dal Padre e divisi fra noi. Era necessario che il Figlio, nel quale tutti siamo rappresentati, provasse il distacco dal Padre col quale era una cosa sola (Gv 10, 30).
Ma Egli non si è fermato nel baratro di quel dolore infinito. Con un immane sforzo, si è riabbandonato al Padre, dicendo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46), e ha così ricomposto l’unità con Dio e fra noi.
È il mistero di Gesù abbandonato-risorto che dà la possibilità a tutti noi, imitandolo, di superare ogni divisione e di intraprendere il dialogo con tutti.
Prospettive politiche della fraternità
Se nei nuovi Movimenti, in genere, c’è l’interesse delle cose umane, nel Movimento dei Focolari la “spiritualità d’unità o di comunione” ha dato origine, fra il resto, anche a un’espressione politica: il Movimento dell’Unità, il cui scopo specifico è appunto la fraternità in politica.
Esso, sorto a Napoli nel 1996, raccoglie l’esperienza di quei politici italiani che, fin dagli anni ‘50, hanno cercato di vivere questo ideale dell’unità. E ora si può costatare come, da ciò che ha posto in pratica ai diversi livelli dell’impegno politico, dall’amministrazione delle città fino all’attività parlamentare, è possibile ricavare alcune indicazioni concrete, che potrebbero essere sviluppate nella più grande dimensione continentale.
Si è capito, anzitutto, che esiste una vera vocazione alla politica. È una chiamata personale che emerge dalle circostanze e parla attraverso la coscienza. Chi crede vi avverte, con chiarezza, la voce di Dio che gli assegna un compito. Ma anche chi non crede si sente chiamato ad essa dall’esistenza di un bisogno sociale, da una categoria debole che chiede aiuto, da un diritto umano violato, dal desiderio di compiere il bene per la propria città o per la propria nazione.
E la risposta alla vocazione politica è anzitutto un atto di fraternità: non si scende in campo, infatti, solo per risolvere un problema, ma si agisce per qualcosa di pubblico, che riguarda gli altri, volendo il loro bene come fosse il proprio.
Il vivere così permette al politico di ascoltare fino in fondo i cittadini, di conoscerne i bisogni e le risorse; lo aiuta a comprendere la storia della propria città, a valorizzarne il patrimonio culturale e associativo: in tal modo arriva a cogliere, un po’ alla volta, la sua vera vocazione e a guardare ad essa con sicurezza per tracciarne il cammino.
Il compito dell’amore politico, infatti, è quello di creare e custodire le condizioni che permettono a tutti gli altri amori di fiorire: l’amore dei giovani che vogliono sposarsi e hanno bisogno di una casa e di un lavoro, l’amore di chi vuole studiare e ha bisogno di scuole e di libri, l’amore di chi si dedica alla propria azienda e ha bisogno di strade e ferrovie, di regole certe… La politica è perciò l’amore degli amori, che raccoglie nell’unità di un disegno comune la ricchezza delle persone e dei gruppi, consentendo a ciascuno di realizzare liberamente la propria vocazione. Ma fa pure in modo che collaborino tra loro, facendo incontrare i bisogni con le risorse, le domande con le risposte, infondendo in tutti la fiducia gli uni negli altri. La politica si può paragonare allo stelo di un fiore, che sostiene e alimenta il rinnovato sbocciare dei petali della comunità.
Noi sappiamo come anche oggi ci sono cittadini per i quali la città è come non esistesse, cittadini per i cui problemi le istituzioni cercano con difficoltà le risposte. C’è anche chi si sente escluso dal tessuto sociale e separato dal corpo politico, a causa della mancanza di lavoro, o di casa, o della possibilità di curarsi adeguatamente. Sono questi, e molti altri, i problemi che quotidianamente i cittadini pongono a chi ha il governo della città. E la risposta che ricevono è determinante perché anch’essi si sentano a pieno titolo cittadini e avvertano l’esigenza e abbiano la possibilità di partecipare alla vita sociale e politica.
E perciò, da questo punto di vista il Comune è la più importante delle istituzioni, perché più vicina alle persone, di cui incontra direttamente tutti i tipi di bisogni. Ed è attraverso il rapporto con il Comune, nelle sue varie articolazioni, che il cittadino sviluppa la gratitudine, o il rancore, verso l’insieme delle istituzioni, anche quelle più lontane, quali lo Stato.
Passando ora a considerare la dimensione nazionale della politica, i rapporti tra i grandi orientamenti che nei nostri Paesi si alternano al governo, costatiamo che il vivere la nostra scelta politica come una vocazione d’amore ci porta a comprendere che anche coloro che hanno fatto una scelta politica diversa dalla nostra possono essere stati spinti da un’analoga vocazione d’amore. E che anch’essi sono parte, nel loro modo, dello stesso disegno, pur presentandosi come avversari. La fraternità permette di riconoscere il loro compito, di rispettarlo, di aiutarli – anche attraverso una critica costruttiva – a esservi fedeli, mentre noi siamo fedeli al nostro.
Si dovrebbe vivere la fraternità così bene da arrivare ad amare il partito degli altri come il proprio, sapendo che entrambi non sono nati per caso, ma come risposta a un’esigenza storica presente all’interno della comunità nazionale: e solo soddisfacendo a tutti gli interessi, solo armonizzandoli in un disegno comune, la politica raggiunge il proprio scopo. La fraternità fa emergere i valori autentici di ciascuno e ricostruisce l’insieme del disegno politico di una nazione.
Lo testimoniano, ad esempio, le iniziative di membri del Movimento dell’Unità volte a creare un rapporto fraterno tra maggioranza e opposizione, sia a livello di Parlamento, sia in alcuni Comuni; iniziative che si sono tradotte in leggi dello Stato o in politiche locali che hanno unito le città nelle quali si sono realizzate.
Lo testimoniano anche numerose esperienze di accoglienza degli immigrati, che accorrono nei Paesi più industrializzati non solo per motivi economici, ma anche politici: una città, una nazione, non perdono, ma guadagnano nell’aprirsi all’altro; si alza la loro statura politica nell’offrire una Patria e una cittadinanza a chi l’ha perduta.
E l’amore per la propria Patria fa comprendere quello che gli altri hanno per la loro, nella quale, pure, esiste un disegno d’amore.
Così colui che, rispondendo alla propria vocazione politica, inizia a vivere la fraternità, si immette in una dimensione universale che lo apre all’umanità intera. E tiene conto delle conseguenze universali delle proprie scelte, si chiede se ciò che sta decidendo, pur rispondendo agli interessi della propria nazione, non porti a un danno per le altre. Ogni gesto politico, in questo modo, non solo quello di un governo nazionale, ma anche il più particolare, compiuto nel più piccolo municipio della più lontana provincia, si carica di un significato universale, perché è pienamente uomo, pienamente responsabile, il politico che lo compie. Il politico dell’unità ama la Patria degli altri come la propria.
Questa è la caratteristica della dimensione politica, dell’essere cittadini: il continuo rapporto con l’altro, il riconoscimento della sua distinzione da me, ma, allo stesso tempo, la convinzione di appartenere, insieme, alla città. Ed è, questa, anche la caratteristica dell’Europa.
Infatti, quando si è iniziato a parlare di Europa, lo si è fatto in relazione alla città.
Attraverso i secoli, continuerà ad approfondirsi la percezione di che cosa è l’Europa e, contemporaneamente, se ne ampliano i confini: dalla piccola Grecia la coscienza europea arriverà a comprendere se stessa dall’Atlantico agli Urali. E questo soprattutto grazie alla penetrazione del cristianesimo, che infonde nei popoli dell’Europa “geografica” i principi religiosi che sviluppandosi in principi civili, sociali e politici, costruiranno l’Europa culturale. E tutto ciò senza soffocare le distinte identità cittadine e le identità nazionali che si sono andate via via formando.
E ad ogni passaggio d’epoca ritroviamo la stessa situazione: ciò che, a un dato momento, si pensava essere l’Europa, è risultato troppo piccolo, si è trovato alle prese con qualcosa di diverso che lo metteva in scacco, e che sfidava l’Europa a comprenderlo, a prenderlo dentro modificandolo e modificandosi.
E facendo ciò, l’Europa è andata sempre più verso se stessa, verso la piena maturazione del seme cristiano che non si esprime più, certo, nella “cristianità” medievale ma, più profondamente, nella dinamica della fraternità universale, che coinvolge persone e popoli diversi fra loro.
È in questa fraternità universale, che crea l’unità salvando le distinzioni, la vocazione dell’Europa. Essa è ancora in cammino. Le guerre, i regimi totalitari, le ingiustizie, hanno lasciato ferite aperte da sanare. Ma per essere davvero europei, dobbiamo riuscire a guardare con misericordia al passato, riconoscendo come nostra la storia della mia nazione e di quella dell’altro, riconoscendo che ciò che oggi siamo è frutto di una vicenda comune, di un destino europeo che chiede di essere preso interamente e consapevolmente nelle nostre mani.
L’unità d’Europa chiede oggi, ai politici europei, di interpretare i segni del tempo, e di stringere tra loro quasi un patto di fraternità che li impegni a considerarsi membri della Patria europea come di quella nazionale, cercando sempre ciò che unisce e trovando insieme le soluzioni ai problemi che ancora si frappongono all’unità di tutta l’Europa.
Per un fine così alto vale senz’altro la pena di impegnare la propria esistenza.
È quanto auguro a loro, Signori.
E li ringrazio per avermi ascoltata.
1 Testo pubblicato in Nuova Umanità 139 (2002) 15-28.
2 In buona compagnia, a cura di C. Mantovano, Roma 2001, p. 11.
3 R. Schuman, Ministro degli Esteri della Francia, Dichiarazione nella Sala dell’Orologio di Parigi, 9.05.1950.
4 Ibid.
5 In L’Osservatore Romano, 2-3 aprile 1990, p. 6.
6 Chiara fa riferimento all’incontro con il Papa dei Movimenti ecclesiali e Nuove Comunità in piazza S. Pietro nella Pentecoste del 1998 (ndr).