Lo spettro del monoteismo
Strano giorno, il 3 aprile scorso, quando il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo di Giovanni Sartori, nel quale il politologo accusava il monoteismo di fare da ostacolo alla democrazia: ebraismo, cristianesimo, islamismo, sarebbero dunque gli autentici nemici delle libertà democratiche; contemporaneamente, il quotidiano francese Le Monde ospitava Paolo Flores d’Arcais che diceva la stessa cosa, concentrandosi, però, sul solo cattolicesimo. Con toni cattedratici il primo, vibrante di denuncia il secondo, questo certamente casuale e libero convergere di due intelligenze superiori nello stesso giorno e con lo stesso argomento lasciava il lettore con l’impressione che l’epoca delle ideologie fosse tutt’altro che finita. Parafrasando Carlo Marx, secondo i nostri due intellettuali un nuovo spettro si aggira per il mondo: il monoteismo! Sartori inizia chiedendosi se la democrazia sia esportabile o meno; egli critica il premio Nobel Amartya Sen il quale, in due suoi brevi saggi, pubblicati tre anni fa anche in Italia, aveva sostenuto che la democrazia non sarebbe un’invenzione dell’Occidente, ma che alcuni suoi elementi essenziali siano presenti anche in tradizioni non occidentali, soprattutto là dove si è arrivati a consentire il dibattito pubblico intorno alle decisioni politiche. Secondo Sen non ci sarebbe solo la democrazia occidentale, ma anche quella che il titolo del suo libro chiama la democrazia degli altri. Senza approfondire le argomentazioni di Sen, seguiamo il filo del ragionamento di Sartori: A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia – e più esattamente la liberaldemocrazia – è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La democrazia degli altri non c’è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato in grande. Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è corretto. E al quesito Sartori risponde che sì, che l’esportazione è possibile ed è già riuscita in alcuni casi importanti. E cita quello del Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, dove la religione scintoista molto tranquilla e molto laica non ha posto ostacoli. Esito analogo in India, che ha assorbito il costituzionalismo britannico; né l’induismo né il buddhismo, secondo Sartori, frapponevano ostacoli; il monoteismo islamico, invece, non avrebbe consentito una vita democratica e per questo l’India si è dovuta separare nettamente dai suoi territori a prevalenza islamica: il Pakistan e il Bangladesh. Sartori ammette seraficamente che l’India aveva coesistito con l’islamismo per mille anni; e non spiega perché; e non si chiede quali altri fattori – di origine non religiosa – siano intervenuti, in tempi recenti, a far esplodere la miscela. Appoggiandosi al caso islamico così superficialmente trattato, Sartori passa poi all’affermazione di carattere generale sul monoteismo: Non è vero che la democrazia costituzionale (…) non sia esportabile/ importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell’ostacolo delle religioni monoteistiche : è una deduzione errata, che certamente avrebbe fatto rabbrividire il Sartori di trent’anni fa, quello che accusava la cultura italiana di essere priva, da sempre, dell’apporto di un serio e pacato sapere empirico. Un sapere empirico, ancorato ai fatti, che dovrebbe farci ricordare come la democrazia di cui Sartori parla si sia sviluppata esclusivamente in Paesi di cultura ebraico-cristiana. Senza queste religioni monoteistiche e senza la cultura laica che esse hanno contribuito a creare, non ci sarebbe neppure, oggi, una democrazia, esportabile o meno che la si consideri. Flores d’Arcais, nel suo articolo La crociata oscurantista del papa denuncia invece la strategia di conquista ordita dal papato, che prevede il controllo politico dell’Italia, per poi scatenare l’offensiva in Spagna e in Germania; il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona – quello che provocò le reazioni di una parte del mondo islamico – voleva essere in realtà un invito indirizzato ai monoteismi (ivi compreso e soprattutto all’Islam) di fare fronte comune davanti all’autentica minaccia che pesa sulla civiltà: l’ateismo e l’indifferenza, cioè una laicità che pretende di escludere Dio dalla sfera pubblica e dall’elaborazione delle leggi. Il disegno della Chiesa cattolica, secondo Flores d’Arcais, è quello di inserirsi nei nuovi spazi di influenza sull’opinione pubblica e sui politici, aperti dall’attuale crisi delle democrazie. Flores d’Arcais è talmente preso dal bisogno di respingere la presunta ingerenza ecclesiale da perdere di vista il problema principale, quello su cui tutti dovremmo effettivamente concentrarci, e cioè la effettiva debolezza, ideale, progettuale, culturale, delle democrazie. Se infatti certe prese di posizione ecclesiali – che ci sono sempre state – assumono un peso molto rilevante nel dibattito politico contemporaneo, è anche perché le parole della politica e coloro che le pronunciano sono sempre più leggeri. È infatti la parola razionale quella che Flores teme, il fatto cioè che il cattolicesimo ratzingeriano sottolinea che il cristianesimo è una religione non solamente della fede ma anche del logos, della ragione; e questa ragione vuole entrare nello spazio pubblico. Leggendo Flores d’Arcais si percepisce che una Chiesa che usa la ragione fa paura, e che si preferirebbe una Chiesa che usasse solo argomenti di fede, lasciando la ragione agli ideologi del laicismo, che la considerano come alternativa alla fede. Che dire? Dove stanno le possibili ragioni di questa paura che vede nella razionalità espressa dalla Chiesa una minaccia? In parte stanno, certamente, in una ideologia laicista, che si muove né più né meno come qualunque altro fondamentalismo e non tollera il diverso che, in questo caso, è il credente con i suoi specifici argomenti. Ma in parte stanno anche in un errore che qualcuno, nel campo ecclesiale, può talvolta effettivamente commettere: il confondere cioè il laico, come realtà ecclesiale, con il laico, come cittadino. Ad esempio, i movimenti ecclesiali laicali, quando agiscono come movimenti, sono Chiesa, anche se composti da laici: possono affermare dei princìpi, ma non possono scendere in campo compiendo scelte politiche particolari. Queste ultime devono essere compiute da ciascuno assumendo una responsabilità personale; e l’eventuale associarsi (in partiti, associazioni, comitati, ecc.) sulla base di tali responsabilità personali, deve avvenire sul terreno civile, non su quello ecclesiale, usando il nome proprio di ciascuno, non quello della realtà ecclesiale alla quale si appartiene. Se venisse fatta una confusione su questo punto, i primi ad averne paura sarebbero i cattolici, non gli altri. I cattolici devono continuare a distinguere molto attentamente tra i due significati di laicità, proprio per togliere ogni giustificazione a coloro che negano la rilevanza pubblica della fede e vorrebbero vedere i credenti rinchiusi nei luoghi di culto. I cattolici, quando entrano come cittadini nello spazio pubblico, usino il linguaggio razionale della cittadinanza, per essere presenza civile e politica: questa razionalità laica ha già dimostrato di saper raccogliere il consenso e vincere le battaglie politiche. E questa è democrazia.