Lo spegnersi culturale di un popolo?
Quando la realtà è sostituita dalle contraffazioni. Rendere visibile l’invisibile.
Quando impazzano i bestseller precotti per un pubblico precondizionato, e il massimo premio nazionale viene assegnato, forse giustamente, a un romanzo di modesta onestà artigianale, la domanda contenuta nel titolo diventa legittima. Per tentare di rispondervi dobbiamo allora tener presente il triplice e intrecciato trionfo sociale della globalizzazione, della tecnica e del virtuale sul reale (vedi pubblicità, cinema, televisione ecc.).
Senza realtà all’arte, e dunque alla letteratura, manca tutto; restano minimalismi individuali, o rovelli labirintici, o un piatto raccontare, o la solitudine non comunicata, se si vuole restare persone che guardano dentro quanto fuori.
Ma perché, si obietterà: la realtà non è quella che abbiamo sotto gli occhi, e dunque anche sugli schermi e nei libri? Magari. Magari bastasse guardare per vedere la realtà. La realtà è quella miseria-grandezza (Pascal), quell’imprendibile e sempre cercata bellezza che ti fa sentire continuamente, radicalmente una nostalgia di casa (così definiva la filosofia Novalis) pur stando a casa (ha aggiunto Chesterton). E questa profondità richiama in sintesi Platone, i Vangeli e tutta l’arte-letteratura per duemila anni, fino a quando, dall’empirismo e dall’illuminismo in poi, si è incominciato invece a pensare, chiudendo quella profondità, che le cose sono soltanto cose, “scientificamente” e solo “scientificamente” conoscibili; e non anche, e soprattutto, icone visibili dell’invisibile.
Da allora la grande letteratura è stata di rivolta e di rifiuto tanto dell’antico spiritualismo ormai irrigidito in posa antimoderna, quanto del nuovo materialismo ideologico, relativistico e indifferente: essa ha reso artisticamente impossibile sia una letteratura “edificante” sia una scrittura d’intrattenimento.
È stata, dai grandi russi ai rivoltosi francesi (da Baudelaire a Camus), ai demitizzanti anglosassoni e italiani (da Joyce a Svevo a Pirandello), all’apocalittico Kafka, letteratura della necessaria catastrofe dell’umanesimo capitalistico-borghese (compreso il comunismo quale sua variante, come la Cina capital-comunista oggi dimostra).
Ma adesso che il mercato vince su tutto, ideologie (distrutte), tecnologie (asservite), realtà (virtualizzata); adesso che si vede bene lo spirito della ricchezza irridere la fragilità umana, fonte perenne, con la natura, di bellezza e di arte; adesso che cosa può fare la letteratura, accorgendosi che le manca, sostituita dalle contraffazioni, la realtà?
La letteratura non conquista la realtà scrivendo pagine più o meno ben fatte, sperando che la loro sabbia, con effetti speciali, sembri roccia.
Vorrei indicare in poche parole una parabola esemplare, quella di Giovanni Testori (oggi assurdamente quasi dimenticato). Egli ha vissuto il suo apprendistato in migliaia di pagine terribili e inconcluse, ma è diventato grande quando ha cominciato a far uscire dal suo io sconvolto la persona che si pone umilmente alla scuola della realtà. Ben prima della sua consapevole accettazione religiosa di essa (Conversazione con la morte, Rizzoli) lo ha fatto nel bellissimo Nebbia al Giambellino (Mondadori), e poi, dopo l’oltranza del disperato Edipus (Rizzoli), in Factum est (Rizzoli), in Confiteor (Mondadori) e nel supremo e sommo In exitu (Garzanti).
Ho nominato i sei capolavori certi di questo grande poco capito e poi emarginato; perché l’oblio è proprio il segnale dello spegnersi culturale di un popolo che non vuole “problemi” se non materiali, solo cose e persone ridotte a cosa.
A cosa ben visibile e usabile. Ma non diceva Paul Klee, grandissimo pittore “non religioso”, che il compito dell’arte non è rappresentare il visibile ma rendere visibile l’invisibile?
Per ritornare alla realtà – Cézanne diceva «sur le motif» andando con i suoi pennelli nella natura –, per ritornare sur le motif della realtà, occorre il coraggio, atei o credenti, di distruggere il feticcio sociale dell’io e di chiedere alle cose, di implorare dalle cose visibili che mostrino, al prezzo di una non pretesa gioia e di un non evitato dolore, il loro essere icone dell’invisibile. Sarà umano-divino per i credenti, sarà umano, ma autentico fino alla limpidezza, per i non credenti. E sarà di nuovo letteratura, non mercato delle parole.