Lo specchio delle ninfee
L'amato giardino di Monet in mostra a Milano. Uno specchio interiore oltre l'Impressionismo.
Sono solo venti le tele di Claude Monet per la mostra dedicata alle leggendarie ninfee, ma anche uno solo di questi capolavori basta a saziare lo sguardo e l’animo. Come poche altre opere d’arte essi racchiudono e trasmettono la passione di un’intera vita. Monet è ormai maturo come uomo e come artista quando decide di prender casa nella campagna di Giverny, a nord di Parigi.
Qui si cimenta nella realizzazione di un progetto coltivato da tempo: dar vita ad un giardino meraviglioso. L’impresa rappresenta un atto creativo che impegna l’artista in tutto e per tutto: «Il mio giardino è un lavoro graduale, fatto con amore, e devo dire di esserne orgoglioso. Scavo, pianto, sarchio io stesso».
Così la natura accompagna la fantasia: sul giardino alla francese si innesta un originale giardino di stampo giapponese. Le piante scelte con cura e fatte arrivare da ogni dove si compongono in una sinfonia di colori che solo un pittore poteva orchestrare: glicini azzurro pallido, iris violetti e gialli, tuberose messicane, folti bambù… Infine, ottenendo l’eccezionale permesso di deviare un affluente della Senna all’interno della propria tenuta, Monet realizza tre grandi stagni. Qui fioriscono le ninfee che innamorano irrimediabilmente l’artista, il più fedele fra i pittori plain air, attento a cogliere nel suo giardino lo scorrere del tempo, la variazione delle luci e delle condizioni atmosferiche, la sfumatura cangiante dei riflessi sui petali dei fiori, sul pelo dell’acqua, sul fondo dello stagno che appena si lascia intravedere.
Eppure, basta considerare le dimensioni delle tele esposte per capire che queste sono state dipinte all’interno dell’atelier. Proprio sul tema delle ninfee, infatti, i quadri si fanno via via più grandi fino a rendere impossibile la pittura sul cavalletto, all’aria aperta.
L’immagine esteriore di quei fiori e della loro luce è stata talmente osservata, studiata, amata, da rivivere ormai nella sua visione come un’immagine interiore, che gli appartiene. Forse è per questo che il pittore arriva a suggerire l’amore come canale preferenziale per entrare nel suo mondo: «Tutti discutono la mia arte e affermano di comprenderla, come se fosse necessario comprendere, quando invece basterebbe amare».
È questo amore a permettergli di vedere e di dipingere ogni volta uno spettacolo sempre nuovo, sorprendente, pur proponendo uno stesso soggetto ricorrente: gli iris, i glicini, le rose, le fronde del salice piangente che accarezzano l’acqua, lo stagno con le ninfee e il ponte giapponese che lo stesso artista vi fa costruire sopra, al contempo punto d’osservazione preferenziale e soggetto di tanti dipinti.
Sull’approssimarsi degli ottant’anni Monet è pronto ad una nuova virata e trasfigura il proprio giardino in un’unica sinfonia di riflessi e di colori; lo stesso amatissimo soggetto, per anni osservato e investigato “dal vivo”, si apre all’esperienza dell’arte astratta. Non c’è più una linea d’orizzonte che separi il cielo dall’acqua, né un residuo di impostazione prospettica, ma un unico specchio di pura pittura che riflette fiori, fronde, nuvole e stati d’animo.
Le tele degli ultimi anni non restituiscono solo l’impressione del mondo esteriore, tanto inseguita da Monet e dai suoi compagni, ma le attese e le passioni di un’intera vita e, mentre osserviamo questo specchio intimo dell’artista, ci rispecchiamo a nostra volta in quei colori sempre più vivi, nelle pennellate sempre più libere, e ci ritroviamo altrove: sollevati, curati, nutriti, illuminati di nuova luce, come fiori di quel giardino, eletti e ricreati dall’amore.
Monet, il tempo delle ninfee. Milano, Palazzo Reale, fino al 27/9/09 (catalogo Giunti).