Lo sguardo di Marcellino

In provincia di Segovia, in Spagna. Un viaggio sui luoghi dove venne girato il celebre film “Marcellino pane e vino”, dall’omonimo romanzo di Sánchez Silva
Pablito Calvo nel film Marcellino pane e vino

Provincia di Segovia, comune di El Espinar. A pochi chilometri dal centro abitato, isolata nei campi ai piedi del Cerro del Caloco, si trova un’antica cappella dalle semplici linee architettoniche risalente al XVI secolo, che si vuole sorta su un tempio romano. Comunemente chiamata “La Ermita” (l’eremo), custodisce le immagini in stile barocco di Cristo e dell’Immacolata, oggetto di grande devozione. Questa raggiunge il suo apice in settembre, quando in onore del Cristo del Caloco si svolge tra El Espinar e la cappella una intera settimana di festeggiamenti che richiamano migliaia di pellegrini da tutta la Spagna, fra un’apoteosi di riti liturgici, spettacoli, stendardi, gare sportive, degustazioni di specialità locali, musiche, danze, carri allegorici e quant’altro.

 

Ma per gli appassionati del grande schermo La Ermita ha anche altri motivi d’interesse: nel 1955, infatti, la cappella fu utilizzata dal regista Ladislao Vajda per girare alcune delle scene più famose del film Marcellino pane e vino, interpretato da uno straordinario Pablito Calvo di appena sei anni, al suo esordio nel mondo della celluloide. Com’è noto, il film venne tratto dall’omonimo romanzo di José María Sánchez Silva (1911-2002), divenuto famoso come scrittore per l’infanzia e unico spagnolo ad aver vinto il prestigioso premio Hans Christian Andersen.

 

Romanzo e film in formato dvd sono ora riproposti abbinati dall’editrice Itaca, con le deliziose illustrazioni di Arcadio Lobato e una introduzione composta da brani di don Luigi Giussani, che riferendosi all’opera di Vajda si sofferma sullo sguardo puro di Marcellino: «uno sguardo umile, che riconosce la sua originalità di nulla e riconosce la Presenza che lo riempie, il dono che lo riempie». Per poi concludere: «Gli occhi di Marcellino pane e vino sono due occhi sgranati sulla positività dell’essere».

 

La vicenda è nota. Marcellino è un trovatello accolto ed allevato da frati. Crescendo, come tutti i bambini, sebbene «buono come il pane», ogni tanto combina qualche marachella: ad ogni modo è la gioia dei suoi benefattori. Un giorno scopre nella soffitta del convento un enorme crocifisso che desta in lui una profonda compassione, tanto da decidere di prendersene cura portandogli da mangiare e da bere e riparandolo dal freddo. Quell’amicizia lo rende felice: l’Uomo della soffitta diventa tutto per il suo cuore semplice, il centro dei suoi pensieri e della sua affezione. Un giorno Marcellino esprime la sua nostalgia per la mamma mai conosciuta, ora in cielo. Gesù accontenta il suo desiderio. I frati costernati troveranno il loro protetto addormentato nel sonno della morte.

 

Questa semplice storia, che avrebbe potuto prestarsi al patetico più spinto, è invece trattata con estrema sobrietà e leggerezza da un Sánchez Silva toccato dalla grazia. Afferma l’autore di aver tratto spunto per essa dai racconti della madre: «Ho pensato che di fronte alle vane fantasticherie che vanno di moda oggigiorno, sarebbe stato utile raccontare ai ragazzi, e ove a questi non fosse possibile, almeno ai loro genitori, perché a loro volta la raccontassero ai propri figli, una delicata storia cristiana, piena di tenerezza e dolcemente impregnata dell’idea della morte, così estranea alla maggior parte dei giovani. Ho pure pensato a lungo, prima di mettermi all’opera, al linguaggio che avrei dovuto usare, e mi sono accorto che non esiste altro linguaggio per bambini all’infuori di quello poetico derivante dalle immagini delle cose e delle idee. Se Andersen, Grimm, Perrault e i più noti favolisti non hanno avuto tali preoccupazioni di stile, meno ancora potevo averne io, che sono il più umile e negligente dei loro discepoli».

 

Tenerezza e idea della morte, affermava Sánchez Silva: proprio ciò di cui ha bisogno il nostro tempo per essere più umano e più saggio.

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