Lo sguardo di Città Nuova e di Liliana Segre
«Da come guardi il mondo tutto dipende» è lo slogan della campagna di comunicazione di quest’anno della rivista Città Nuova. C’è un episodio della storia di Liliana Segre che ben illustra il nostro punto di vista. Deportata da Milano ad Auschwitz nel gennaio ’44, quando aveva quasi 14 anni, perché ebrea, riesce a fuggire quando i tedeschi, per l’arrivo dell’Armata rossa, cominciano ad evacuare il campo nell’aprile del 1945.
Il momento della liberazione arriva quando i nazisti, per scappare dall’esercito sovietico, fuggono insieme agli internati con lunghe marce forzate verso la Germania. Molti prigionieri muoiono di fame e di stenti. Un crepitio di mitragliatrici russe è il punto di svolta. I nazisti, in preda al panico, per non farsi riconoscere, si spogliano delle divise e restano in mutande. Il comandante delle SS dell’ultimo lager di Liliana Segre è terrorizzato, si spoglia in gran fretta. È in mutande anche lui, solo, accanto a lei. Per la fretta lascia accanto a sé la pistola. Liliana Segre avrebbe potuto vendicarsi, cadere nella spirale dell’odio. Invece, racconta: «Potevo ammazzarlo come un cane. Guardai l’arma, ci pensai qualche istante e poi decisi no! Meglio cento altre volte vittima che una sola carnefice».
Il suo sguardo, la sua scelta sancisce che l’odio non ha futuro. Malgrado tutto. Il comandante è tra coloro che l’hanno imprigionata, che le hanno assassinato il padre, eppure «Liliana Segre ‒ scrive Moni Ovadia in Madre dignità ‒ lo riconosce come un essere umano, non vuole esserne il carnefice. Il sedicente “superuomo”, privato della propria dignitas di ufficiale nazista nella fragilità della paura, viene ricollocato nell’orizzonte della dignità».
«La dignità non è negoziabile ‒ aggiunge Moni Ovadia ‒ non ha prezzo. Riconoscerla anche al peggiore dei carnefici, al più efferato degli aguzzini è la migliore risposta possibile alla logica dell’odio, dello sterminio, del genocidio, traccia un solco invalicabile fra la cultura della vita e il dominio della morte».
Città Nuova si pone davanti al mondo con lo sguardo generativo della vittima che predilige i poveri, le periferie esistenziali e geografiche, la cultura dell’incontro. È uno sguardo che avvolge anche il carnefice, che lo salva, perché richiama l’amore infinito di Gesù crocifisso e abbandonato sulla croce che restituisce dignità a ogni vittima e a ogni carnefice.
L’Italia è un Paese ammalato di cronaca nera che arriva ‒ secondo i dati raccolti dall’Osservatorio della Fondazione Uniplois insieme all’Osservatorio di Pavia ‒ a costituire il 54% delle notizie totali in tv. Negli altri Paesi europei si oscilla tra il 9 e il 18%. La manipolazione delle notizie non consiste solo nel modo di scriverle ma anche dal menu che confezioniamo.
Contemplare la realtà con lo sguardo della vittima vuol dire denunciare il male e evidenziare il bene. Le guerre, la mafia, la corruzione cominciano a finire quando un comunicatore riesce a fartele vedere con tutta la loro violenza e ingiustizia.
Raccontare il bene vuol dire evidenziare il positivo che già esiste nei nostri quartieri, nelle nostre città, in singole persone e associazioni, o che agiscono in rete nelle realtà ecclesiali e civili, ma non solo per curare le vittime del sistema, ma per cercare di andare alle radice di strutture che producono disumanità.
«La presenza di Dio ‒ scrive il cardinal Angelo De Donatis ‒ vive tra i cittadini che promuovono la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata».
C’è molto di bene, tante buone notizie celate, la gran parte della popolazione è sana, attiva, protagonista ma non assurge spesso agli onori della cronaca.
«Siamo qui ‒ ha detto Liliana Segre qualche sera fa a Milano ‒ per parlare di amore e lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera». Di ogni tastiera. Anche le nostre.