Lo scudo o la lancia? La fragile sicurezza del riarmo
Tra le voci che si levano in questo periodo a favore di un’escalation del conflitto troviamo quelle del presidente francese Emmanuel Macron, dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell e del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che sostengono la possibilità di utilizzare le armi fornite dagli occidentali per colpire direttamente il territorio della Russia.
A parte il fatto che sono già stati effettuati attacchi contro la Russia, anche su Mosca, questa non appare una scelta risolutiva del conflitto in corso, tanto che Macron aggiunge di essere pronto a inviare istruttori militari francesi in Ucraina (ad aggiungersi ad altri della NATO, già presenti colà), mentre la Polonia afferma la sua disponibilità ad inviare eventualmente truppe combattenti, come peraltro era già stato affermato mesi fa anche da Lettonia, Lituania, Estonia e Finlandia.
Il Belgio fornirà ben 30 aerei da combattimento F-16, ma nel 2028. Sembra che, di fronte all’attuale difficoltà ucraina di contenere la lenta avanzata russa e al chiaro fallimento della controffensiva di Kiev dell’estate scorsa, NATO e Ue non abbiano altri piani B se non quello di andare verso un’escalation con prospettive di guerra globale, mentre s’ignorano i cambiamenti climatici.
Anche molti dei principali mass media stanno contribuendo a sostenere questo clima, ad esempio da un lato evidenziando la pericolosità delle esercitazioni nucleari russe e dall’altro presentando di contro come “normale routine” quelle della NATO (peraltro modalità informativa già applicata durante la Guerra Fredda).
Ultimamente va molto il confronto numerico delle forze in campo (militari e mezzi) tra NATO e Russia, che è nel complesso a favore della NATO in molti settori (meno in altri): in realtà è un esercizio molto complesso che deve considerare gli spazi geografici, le tecnologie disponibili, le diverse dottrine militari, la potenza industriale, le caratteristiche dei sistemi d’arma, le risorse, ecc. Insomma non è una semplice analisi di tipo aritmetico, tanto che nel passato vigeva dal 1990 proprio il Trattato sulle forze convenzionali in Europa (Treaty on Conventional Armed Forces in Europe), da cui Putin, che ne chiedeva una revisione adatta ai tempi, uscì nel 2007.
L’utilizzo dei confronti riguardo questo o quel sistema d’arma può contribuire ad orientare l’opinione pubblica e a generare più o meno paura. Recentemente sui due maggiori quotidiani nazionali sono apparsi degli articoli, uno dopo l’altro, che mettono in evidenza l’inadeguatezza degli arsenali dell’Alleanza nel campo delle difese antiaeree e antimissili.
Sostanzialmente si tratta dell’antica questione dello scudo e della lancia, del maggior costo e della maggiore efficacia dell’uno o dell’altra, oggi rappresentati dai sistemi antimissili e dai missili. Come l’Iron Dome israeliano tecnologicamente avanzato ma costoso, ad esempio, rispetto all’attacco iraniano con missili e droni dalla tecnologia e dai costi decisamente inferiori. Si tratta di uno squilibrio finanziario reale tra il minor costo del sistema di attacco rispetto a quello di difesa.
Ma quello che sfugge apparentemente a molti osservatori è che tutti questi sistemi e questi costi non garantiscono ad Israele, come a qualunque altro possibile Paese, la sicurezza, che non può essere ricercata in un’infinita corsa agli armamenti, preludio di nuove guerre.
Se si ricerca la sicurezza nella superiorità militare, la guerra è inevitabile, come ci dimostrò già nel lontano passato lo scontro tra Atene e Sparta, timorose l’una dell’altra potenza. Il detto latino historia magistra vitae mostra di essere largamente sbagliato, almeno per noi umani.
È interessante notare la “disattenzione” circa i dati relativi alle spese militari i quali mostrano che la NATO (complessivamente con 1.341 miliardi di dollari) e la NATO europea (376 miliardi) sono largamente al di sopra dei 109 miliardi della Russia (secondo i recenti dati del SIPRI).
Non sembra che in ambito occidentale si rifletta adeguatamente sulle cifre forniteci dal SIPRI che mostrano i dati iperbolici delle spese dell’Alleanza Atlantica che rappresentano ben il 55% delle spese militari di tutto il mondo. Eppure ci si sente insicuri.
Evidentemente qualcosa non funziona bene. Con questi livelli di spesa enormi, con forze armate e sistemi d’arma numericamente preponderanti, come mai la “sicurezza” non è garantita? Una riflessione su un tale spreco di risorse con così modesti risultati dovrebbe indurre non solo a discuterne, ma anche a ripensare la politica economica del settore militare e il connesso sistema di relazioni internazionali, che da parte NATO punta ad una supremazia militare nei confronti del mondo, dove invece la globalizzazione in atto fa sì che le interrelazioni tra le potenze leader (la democrazia statunitense, le autocrazie russa e cinese) e anche quelle con gli altri Paesi emergenti siano tutte da reimpostare (vedi il caso dei BRICS).
Le semplici categorie usate per spiegare il Novecento (democrazie vs comunismo, “buoni contro cattivi”) non sono più valide, come purtroppo ci dimostrano non solo gli stretti rapporti dei Paesi occidentali con regimi più o meno sanguinari (Egitto, Arabia Saudita, ecc.), ma anche le vere e proprie alleanze con altri governi dove i diritti civili sono in pericolo (Turchia, Ungheria, Polonia).
La nostra sicurezza è l’insicurezza degli altri nell’ambito di una “geopolitica del caos” del XXI secolo e le guerre continue (dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria alla Libia, dallo Yemen alla Georgia, dall’Armenia all’Azerbaijan, dalla Cecenia al Kurdistan e così via) lo stanno a dimostrare in un mondo sempre più complesso.
Scudi e lance, missili e antimissili non ci forniranno nessuna sicurezza se essa non sarà (faticosamente) condivisa e se altre vie non saranno esplorate.
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