Affinati: lo scrittore parla per chi non può farlo
Perché a casa sua, da bambino, non c’erano libri?
Dipende dal fatto che entrambi i miei genitori avevano frequentato le scuole fino alla quinta elementare. Erano dei sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale. Mia mamma, Maddalena Cavina, durante la guerra, in seguito alla fucilazione di mio nonno materno, riuscì a fuggire da un treno che l’avrebbe condotta nei lager tedeschi. Ho parlato di questo in Campo del sangue. Mio padre era un bambino orfano che nella Roma del fascismo viveva da solo. Si conobbero nel secondo dopoguerra, ma non avevano studiato. Ho cominciato a leggere da solo Hemingway, Tolstoj, Dostoevskij.
Cosa l’ha affascinata della lettura?
La possibilità di viaggiare senza spostarsi da casa. È un modo di conoscere persone, mondi nuovi, avere avventure spirituale. Intensificare la vita. Evidentemente avevo una predisposizione alla lettura e alla scrittura.
Come e quando ha sentito la necessità di diventare scrittore?
Sin da bambino avevo la chiarezza di diventare uno scrittore e mi sentivo portato più all’espressione che all’azione. Avevo pochi amici, ero introverso, ribelle, mentre nella scrittura avevo subito trovato una mia realizzazione, andavo bene nei temi, sentivo di avere un’attitudine, una sensibilità che ho coltivato in modo quasi segreto. Negli anni ho avuto un lungo apprendistato, una lunga stagione di letture. Ho esordito quando avevo già 36 anni.
Senza classi, voti, burocrazia, rapporti uno ad uno. Che rivoluzione antropologica propone la sua scuola Penny Wirton per insegnare italiano agli stranieri?
È una scuola che vuole riprendere lo spirito di don Milani: senza classi, appunto, basata sull’uno a uno. I nostri allievi si chiamano Mohamed, Francisca, Omar. Per coinvolgerli, devi mettere in gioco te stesso, entrare in sintonia con loro. È un’azione antropologica e didattica: il vero obiettivo che in Italia e Europa dobbiamo ancora realizzare. Non significa limitarsi a svolgere il programma e mettere il voto, ma creare “imprese conoscitive”. Negli ultimi due anni abbiamo puntato molto sul coinvolgimento degli studenti italiani. Soltanto a Roma quest’anno 300 liceali italiani hanno insegnato l’italiano ai loro coetanei immigrati nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro. Ho quasi la sensazione che questa attività serva più a noi italiani che agli stranieri.
Come vivete, insieme a sua moglie, il ruolo di educatori?
Penny Wirton e sua madre è il titolo di un romanzo di un grande scrittore italiano, Silvio D’Arzo, che morì a 32 anni di leucemia. È la storia di un ragazzo che non conobbe mai suo padre. Io e mia moglie Anna Luce ci siamo conosciuti grazie a questo romanzo perché entrambi abbiamo fatto la tesi su Silvio D’Arzo. Per noi Penny Wirton ha un valore doppio. Insegniamo l’italiano agli stranieri, i Penny Wirton di oggi. Coinvolgiamo tanti volontari, solo a Roma ce ne sono 200. Inoltre sono nate in questi anni una trentina di scuole Penny Wirton in ogni parte d’Italia, grazie all’iniziativa di donne e uomini di buona volontà.
Riferendoti alla professoressa Adele Corradi, nel suo ultimo libro su Don Milani, L’uomo del futuro, scrivi «Pensi forse che stare vicino a don Lorenzo negli ultimi quattro anni della sua vita abbia provocato un’osmosi tale da trasferire l’essenza dell’uno nello spirito dell’altra, fino al punto di superare i limiti della vita?». Aderire alla realtà, stare gomito a gomito, cucire relazioni, rapporti, amicizie è una delle fonti migliori della conoscenza?
Sì, almeno per chi, come me, vuole sperare che l’amicizia non sia soltanto l’esito di un sentimento istintivo, ma poggi le sue basi sulla congenialità che due esseri umani scoprono fra di loro.
Orson Wells diceva che un poeta ha bisogno di una penna, un pittore di un pennello, e un regista di un esercito. Qual è lo specifico della letteratura rispetto ad altre arti?
Attraverso la scrittura porti alla luce delle lacerazioni, dei momenti dolorosi. Devi lavorare molto con i tuoi fantasmi interiori e sciogliere dei nodi che sono dentro di te. Nella letteratura l’elemento distintivo è il linguaggio: la casa del pensiero, non solo un mezzo di comunicazione. Chiami in causa il passato perché il linguaggio è frutto di un lavoro millenario che altri uomini, altri scrittori hanno fatto prima di te. Da ragazzo, attraverso la lettura, cercavo dei “compagni segreti”: questo è anche diventato il titolo di un mio libro. Gli scrittori erano gli interlocutori ideali a cui rivolgermi quando mi sentivo solo.
Qual è la forza e il limite della parola? Non si riesce a restituire tutta la realtà?
Quando scrivi pianti un chiodo, ti addentri in un bosco e incidi con un coltellino la tua presenza sul tronco di un albero. Come dire: «Io sono passato da qui». Questa testimonianza è l’essenza di ogni persona. Lo scrittore parla anche a nome di chi non può farlo.
Leggi qui l’intervista integrale apparsa nel numero di settembre di Città Nuova