Lo scenario aperto di un nuovo movimento per la pace

La manifestazione del 5 novembre ha portato in piazza una folla di oltre 100 mila persone con la novità, nel tempo di Francesco, di una presenza organizzata di movimenti e associazioni cattoliche. Si tratta ora di capire come questo capitale di umanità sarà in grado di incidere concretamente in un quadro geopolitico segnato dal dramma di una guerra che non si riesce a fermare
Foto Mauro Scrobogna/LaPresse
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Cosa cambierà dopo la marcia per la pace del 5 novembre? Oltre 100 mila persone scese per le strade di Roma sono un dato effettivo che Sergio Bassoli, portavoce della Rete pace e disarmo, ha potuto annunciare dal palco eretto a piazza San Giovanni con realismo prudenziale.

Potevano essere molte di meno perché, spesso, dietro le numerose sigle si nascondono pochi attivisti reali, mentre le grandi organizzazioni sono tali, a volte, solo per il numero formale degli iscritti. Soprattutto quando non credono davvero alla causa che propongono formalmente. La Cgil di Landini ha confermato, invece, la sua presenza massiccia e la gestione logistica dell’evento anche se, stavolta, oltre il colore rosso del sindacato si sono viste una marea di bandiere bianche delle Acli e i vessilli tendenti al violaceo della Comunità di Sant’Egidio. Emblemi di una larga adesione che va dalle parrocchie all’Azione Cattolica e il Movimento dei Focolari.

L’obiettivo della coalizione di Europe for peace è quello di promuovere un’azione popolare dal basso per spingere i Paesi europei a fermare la guerra in Ucraina e proporre, con il coinvolgimento degli attori internazionali, un credibile negoziato di pace.

Con tale impostazione è stato possibile radunare persone che la pensano in maniera opposta sulla questione della fornitura di armi al governo di Kiev oppure sono semplicemente confuse davanti ad un dilemma lacerante.

Potevano accendersi, quindi, conflitti e tafferugli tra la folla ma, a parte isolate contestazioni rivolte al segretario del Pd Enrico Letta, presente nel corteo, la situazione è rimasta sotto controllo. La nuova postura del M5S da parte di Giuseppe Conte ha, invece, raccolto consensi tra i manifestanti verso l’ex presidente del Consiglio, anche se espressioni di vero e proprio affetto, lungo il corteo, le ha raccolte Rosi Bindi, l’ex presidente del Pd, ormai fuori dal partito, che ha proposto una rifondazione dell’area politica di appartenenza.

Si è messa in fila, esponendo i colori nazionali dell’Ucraina, anche una delegazione della rivista della sinistra libertaria Micromega che ha promosso un appello per ribadire che «pace vuol dire il ritiro dell’aggressore entro i suoi confini, ogni altra soluzione sarebbe un  premio a chi la pace l’ha violata», ponendo, in tal modo, le condizioni di un negoziato che sono molto diverse, ad esempio, da quelle avanzate da un gruppo di ex diplomatici e dal documento degli 11 intellettuali trasversali pubblicato su Avvenire.

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Giuliano Ferrara su Il Foglio ha liquidato i promotori di Europe for peace come «aspiranti becchini degli ucraini che si battono contro l’invasore» mentre ha lodato l’iniziativa politica di Calenda che nello stesso pomeriggio del 5 novembre ha tenuto a Milano (5 mila partecipanti secondo le cronache) la sua contro manifestazione, con l’adesione anche di esponenti del Pd, per ribadire la necessità della fornitura di armi all’esercito di Kiev perché «non può esistere una pace senza giustizia, serve la vittoria militare dell’Ucraina».

A complicare ogni facile schematismo sulla questione della guerra si deve registrare che anche dalla cultura della destra è arrivata l’adesione alla manifestazione romana da parte del comitato “Fermare la guerra” promosso da Gianni Alemanno. Secondo l’ex sindaco della Capitale e storico esponente della destra sociale «è assurdo che si è continuato a mandare armi e a mettere sanzioni, ma non si è fatta nessuna proposta di pace. Occorre invertire il meccanismo. Se continuiamo a mandare armi chiedendo il cessate il fuoco, i russi crederanno sempre che si tratti di una strategia per guadagnare tempo».

La fase degli interventi dal palco, issato accanto alla facciata della basilica di San Giovanni, è iniziata con la lettura del messaggio di incoraggiamento del cardinal Matteo Zuppi da parte di don Tonio Dell’Olio della Pro civitate christiana di Assisi ed esponente storico di Pax Christi e Libera. Un fatto, la centralità del messaggio del presidente della Cei, che rappresenta una novità assoluta e inimmaginabile fino a qualche anno addietro.

Un segno dei tempi che sono mutati radicalmente con il papato di Francesco considerando, tra l’altro, gli interventi successivi della Comunità Papa Giovanni XXIII, dell’Agesci, delle Acli, per finire con don Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di Libera, e Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio che pochi giorni prima ha organizzato un convegno internazionale e interreligioso sulla pace con tanto di presenza del papa.

La consapevolezza di vivere un momento estremo e decisivo nella storia dell’umanità spiega molto di quella convinzione che Landini, nell’intervento finale, ha definito un segno di unità nella diversità con espliciti riferimenti alla fraternità che si esprime, come ha ribadito, verso chiunque scappa da guerra e miseria.

Un discorso intenso, quello del segretario della Cgil, che ha fatto esplicito riferimento alla riduzione della produzione di armi che costituisce un nodo irrisolto delle proposte di politica industriale da parte del sindacato. Una questione che si presenta ancor più difficile da affrontare nello scenario globale contrassegnato dal riarmo generalizzato e che riguarda direttamente i vincoli internazionali del nostro Paese.

È noto il desiderio dei politici italiani di scrollarsi di dosso il pregiudizio sull’inaffidabilità dei nostri governi che ha spinto verso scelte di forte atlantismo suggellate dall’esecutivo di emergenza guidato da Mario Draghi.

Si tratterà di un banco di prova effettivo per tutte le realtà che si sono esposte con la grande manifestazione collettiva che rischia di restare una dichiarazione di principio senza una declinazione di tipo economico.

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E in tal senso è inevitabile verificare come tali istanze riusciranno a confrontarsi seriamente con i politici che si sono presentati tra il popolo del 5 novembre, e con quelli che formano la compagine governativa, per capire se questo pezzo di società civile sarà capace di sostenere nel tempo una piattaforma di proposte credibili. E bisogna fare in fretta perché saranno crescenti le occasioni di un più stretto coinvolgimento dell’Italia sui diversi teatri di guerra che sono anche geograficamente vicini.

Il tema della pace provoca lacerazioni e può essere sfruttato a livello emozionale per conquistare un’effimera egemonia ideologica. Ma il nostro tempo è radicalmente diverso, ad esempio, da quello dell’immediato dopo guerra dove il Pci di obbedienza staliniana cercò di guadagnare consensi con il movimento dei “partigiani della pace”, che pure ebbe un certo seguito, legati alla strategia del pensiero forte sovietico. Oggi prevale un senso di smarrimento davanti a tensioni geopolitiche difficili da capire, all’attrazione verso l’autocrazia e il nazionalismo che si associa alla percezione di un prevalere di potentati economici anonimi e il pericolo di una crisi ecologica da ultimi tempi.

In questo scenario la figura e il messaggio di Francesco costituiscono un segno di speranza e di contraddizione che gli stessi credenti hanno difficoltà a seguire nella sua radicalità evangelica, mentre persone di ogni credo e convinzione ne riconoscono il messaggio universale di un’altra umanità possibile.

Forse non è stato un caso che il 5 novembre è anche legato a Giorgio La Pira che proprio in questa data nel 1977 terminò i suoi giorni terreni. Bisogna avere occhi per vedere l’attualità della sua visione sul crinale apocalittico della storia. Quella collettiva dell’intera umanità.

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