Lo scandalo dei campi di detenzione in Libia
«Considerato l’attuale contesto, in cui prevalgono scontri violenti e diffuse violazioni dei diritti umani, i migranti e i rifugiati soccorsi non devono fare ritorno in Libia». Non può essere più chiara la recente nota dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in materia, ma la linea del nostro governo resta quella di evitare la partenza dei migranti e di lanciare, in ogni maniera, un messaggio esplicito: «chi parte torna in Libia».
Ne parliamo con Nello Scavo che, dalle pagine di Avvenire, continua a denunciare l’insostenibilità della posizione italiana.
Si ha difficoltà a parlare dei campi di detenzione in Libia dove vengono rimandati i migranti. Tu dici che sono dei lager, perché tanta difficoltà a riconoscere questo dato di fatto?
La storia, in modi e sfumature diverse, si ripete. Nell’ultimo secolo abbiamo conosciuto anche altri lager, gulag, “campi di rieducazione”, che si è voluto far finta di non vedere. Nelle epoche passate però si poteva usare con maggiore disinvoltura l’alibi del “non sapevamo”. Ma al tempo della comunicazione di massa non possiamo più permetterci questo sotterfugio. I centri di detenzione libici sono anche finanziati dalla comunità internazionale che cerca di quietare gli appetiti delle milizie finendo per finanziarle. Ancora peggio la situazione nelle prigioni clandestine dei trafficanti di uomini. Tutto questo è noto e ampiamente resocontato dalle inchieste delle Nazioni Unite, dalle organizzazioni per i diritti umani e da numerosi giornalisti. Sostenere il contrario si spiega solo con l’intenzione consapevole di non riconoscere più il destino dell’altro come parte del destino di ciascuno. Al contrario l’altro, specialmente se povero e straniero, è visto come causa delle nostre angosce, delle nostre insoddisfazioni, dei nostri desideri irrealizzabili. Quando Enzo Biagi chiese a Primo Levi come fu possibile costruire e mettere in funzione i campi di concentramento, lui rispose in quattro parole: “Facendo finta di niente”.
La difficoltà ad affrontare una cosa così grave, non nasce dal fatto che è stato il precedente governo con il ministro Minniti a cercare accordo con i diversi attori del conflitto in corso in Libia per governare in qualche modo i flussi migratori?
Con Marco Minniti ho avuto personalmente diverse occasioni di confronto. Raramente ne ho condiviso le scelte. Ma riconosco che quantomeno egli aveva in mente un percorso. Soprattutto non si è mai sottratto al confronto e non ha mai liquidato chi la pensasse diversamente come un banale “buonista” e “immigrazionista” che costituisce di per sé un pericolo per la comunità nazionale. Rivendico, insieme con Avvenire, di avere segnalato con largo anticipo il rischio della “trattativa” con quei leader libici che sono espressione di decine di milizie dall’impronta mafiosa e tribale.
Anche dai non salviniani, si veda nostra intervista a Natale Forlani, viene criticata l’operazione Mare Nostrum che altri invece indicano come migliore espressione della politica italiana in termini di responsabilità di salvare vite umane..
L’operazione Mare Nostrum (avvenuta nel pieno della guerra siriana, quando centinaia di migliaia di profughi fuggivano dal conflitto) è stata meritoria ma purtroppo, e questo è stato il punto debole, scollegata da qualsiasi serio intervento politico nei Paesi d’origine. Accusare Mare Nostrum è un po’ come dire che le ambulanze sono la causa degli incidenti stradali, perdendo così di vista la vera origine del problema. La “terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, così come i 72 milioni di profughi (perfino più che durante la Seconda guerra mondiale), gli oltre 70 conflitti nei cinque continenti, gli oltre 300 milioni di migranti, non sono un’invenzione giornalistica.
Quale alternativa ti sembra la più indicata sulla questione migranti considerando che i Paesi europei continuano a giocare allo scarica barile?
Non credo ci sia un’alternativa alla corresponsabilità della comunità internazionale e specialmente dell’Europa, mai così divisa ed egoista. Per anni c’è stato un dibattito sulle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Che ne è stato di quelle “radici”? Non ci si può sottrarre al dovere di soccorrere e salvare. Occorre ripensare al senso dell’accoglienza. Ma tutto questo dovrebbe avvenire riformulando le relazioni dei Paesi ricchi con i Paesi poveri. Non è aumentando la distanza tra “noi” e “loro” che riusciremo mai a governare i flussi migratori.
Sembra che tu stia contravvenendo alla regola della “giusta distanza” che dovrebbe osservare un giornalista per poter parlare con imparzialità di ciò che accade. Cosa rispondi a tale obiezione?
In effetti è una delle critiche che più spesso mi vengono mosse. Anche recentemente alludendo al mio modo di raccontare, un importante politico del nostro governo mi ha definito “fazioso”. Temo sia la cifra del nostro tempo. Non credo di avere mai usato toni sguaiati né calunniosi nei miei pezzi. Però la tua domanda contiene un’evocazione più profonda. Da giornalista la cosa che ho imparato è che sei vuoi raccontare “da vicino” devi trovarti “il più vicino possibile”. E allora qual è la “giusta distanza” per raccontare lo spartito di cicatrici che segnano la schiena di un ragazzino sudanese seviziato in Libia? E quale è la “giusta distanza” dal volto di una giovane donna somala che ha negli occhi il disprezzo per ogni maschio della razza umana. E quale può essere “la giusta distanza” dall’eroismo silenzioso di una madre macedone che da anni ogni sera da cinque anni fa trovare un piatto caldo ai profughi che risalgono la dorsale balcanica? È dal potere che bisogna tenersi a distanza quando si racconta. Ma stare più vicino agli ultimi, ai dimenticati, ai deboli, non è mai un torto. Rinunciare ad essere voce di chi non ha voce, questo si creerebbe una distanza imperdonabile
Come andrà a finire, secondo te, con gli sgomberi dei centri di accoglienza e l’ostentato diniego all’approdo delle navi con i richiedenti asilo? Non finirà che ci saremo abituati a ciò che ora, almeno per qualcuno, appare uno scandalo intollerabile?
Le nostre opinioni pubbliche si stanno abituando al male e, temo, vi si riflettano talvolta con compiacimento. Va però riconosciuto che nei momenti che contano scattano quegli slanci spontanei che ci fanno molto sperare. Penso al recente sbarco nel crotonese, quando decine di italiani del posto si sono gettati tra le onde per salvare i migranti. E ciò è avvenuto in quella Calabria nella quale il progetto di accoglienza diffusa, che non è e non era solo Riace, è un’esperienza radicata. Penso anche ai tanti ragazzi di estrazione politica, religiosa, culturale molto diversa che si stanno spendendo nelle missioni di salvataggio e soccorso provenienti da tutta Europa. Chi pensa di stare dalla parte giusta della storia bloccando le navi umanitarie, in realtà sta tranciando ogni idea di futuro.