Lo raccontano i sassi
Il silenzio alto della montagna viene lacerato da un’esplosione. Giù, nella cava dell’Artana, hanno fatto brillare una carica di dinamite. Sotto i nostri occhi, un enorme blocco di marmo – quel marmo d’una bianchezza abbagliante che ha reso celebre il massiccio delle Apuane – si stacca dalla bancata sbriciolandosi fra un nuvolone di polvere. «Ecco come va in malora il nostro patrimonio!», esclama Cesare, l’amico che da Carrara mi ha portato fin quassù.
Quel marmo detto “lunense” dai romani e più tardi “statuario”, “bianco ordinario”, “bardiglio”, eccetera, a seconda delle varietà, «fin dall’antichità – interviene Pietro, l’altro del terzetto – veniva estratto con immensa fatica a forza di picconi, mazze, mazzuoli, cunei, subbie e scalpelli. L’uso dell’esplosivo inaugurato nel Settecento, se permetteva di abbattere enormi quantità di roccia in tempi relativamente brevi, si rivelava però distruttivo e antieconomico: parte di quel marmo prediletto da Michelangelo veniva infatti ridotto in materiale di scarto. L’introduzione, ai primi del Novecento, del taglio con il filo elicoidale non ha purtroppo eliminato il metodo delle cariche esplosive». Di qui il disappunto dell’amico, che lungo il cammino mi ragguaglia ancora su cavatori, “lizzatori” (gli addetti al trasporto dei blocchi a valle su apposite slitte, le “lizze”) e su quanti quassù, per secoli, si sono guadagnati il pane a prezzo, spesso, della vita. «Dalla fine dell’Ottocento al 1964 è stata attiva anche la “marmifera”, una ferrovia unica al mondo, che trasportava i blocchi direttamente al mare, oggi sostituita da speciali camion che arrivano fino in cava. Ma nonostante gli accorgimenti tecnici in termini di sicurezza, la pericolosità intrinseca di questo tipo di lavoro rimane».
Diretti a Colonnata, si discute sull’attuale crisi del settore lapideo, crisi che ha intaccato il primato mondiale di Carrara anche a causa della forte concorrenza di altri Paesi. D’un tratto, al termine di una dura salita, lo scenario cambia: i massi che biancheggiano al sole non hanno più l’aspetto naturale, ma rappresentano figure d’ogni dimensione: alcune sembrano ispirate alla mitologia, in altre si riconoscono personaggi del nostro tempo. È una sorta di atelier a cielo aperto, all’apparenza deserto. No, qualcuno s’affaccia da una casupola che fiancheggia il sentiero. Cappello di paglia, una sigaretta spenta tra le labbra, si presenta come Mario Del Sarto: «Qui – ci informa – siamo in località Mortarola. Il nome viene dai mortai ad uso cucina che una volta, in certe grotte del posto, venivano lavorati da artigiani inginocchiati schiena contro schiena per non buttarsi in faccia le scaglie di marmo. Io sono nato in quella casetta lì nel 1925».
Mario ha iniziato a scolpire a otto anni. «Ogni giorno, terminate le lezioni a scuola, aiutavo mio padre, pastore di pecore sulle Apuane. Poi ho fatto il falegname presso le cave, il manovale muratore, il frenatore e infine il conducente della “marmifera”. Sono diventato scultore tardi, a cinquant’anni. La mia prima opera è quella lassù, in legno, materiale con cui ho cominciato». E ci indica un Buon Pastore che farebbe un figurone in un museo paleocristiano.
Gli chiedo se ha avuto un maestro in quest’arte. «Bah, io non ho imparato niente da nessuno, sono stato a badare cosa mi “raccontavano” i sassi e l’ho fatto. È più difficile inventare, preferisco assecondare il movimento naturale della pietra. Per esempio, vedi là quel sasso? Un giorno ci ho visto dentro uno sdraiato e ho fatto quella figura che sogna, che pensa. Poi mi son chiesto: e quel muro di sopra cosa sarà? È il cammino della vita, dove ogni giorno per andare avanti c’è un sasso da spostare. Per lo più sono bianchi, perché la vita è bella, però ogni tanto ne capita uno nero: rappresenta una giornata “no”. Quando avremo finito di spostare sassi, saremo liberi, avremo finito di faticare e ce ne andremo… Dove andremo te lo dirò un’altra volta, quando ritorni».
E proseguendo, con la sua pittoresca parlata e la vivace gestualità: «Qui in ogni sasso c’è una creatura amica. Questo dal bel colore mi guardava da un po’ di tempo. Ed io a chiedergli: “Ma cosa vuoi?”. Mi sono messo al lavoro ed è venuto fuori Aronta, il veggente che secondo Dante, nel XX Canto dell’Inferno, “ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca/ per sua dimora, onde a guardar le stelle/ e il mar non li era la veduta tronca”. Quando nel 2007 è venuta l’alluvione, il torrente Carrione qui sotto s’è portato via un bel po’ di sculture. Ho recuperato quelle che potevo, tra cui anche lui, Aronta, un po’ malconcio. Tutte queste io le faccio per passione».
Già, osservo, diversamente con la fatica che costano… E Mario: «No, io mi stanco quando non faccio niente. Più i sassi sono grossi e più forza mi viene. Vedi quel gigante là, di quattro metri? Rappresenta il primo uomo che scolpì marmo sulle Apuane, detto “lo Spartano”. Era un anarchico, cioè uno “senza padrone”, da non confondersi con i delinquenti bombaroli. Carrara era la patria di questi tipi, piccoli proprietari di cava che si ribellavano ai grandi industriali del marmo che volevano dargli poco, e non vendevano a costo di morire di fame. Anch’io sono un anarchico: non lavoro su commissione, non voglio padroni che mi dicano quel che devo fare».
Alcune opere ricordano vagamente i Moai dell’isola di Pasqua. «Queste – spiega subito Mario – io le chiamo “sculture primitive messaggere”. Sai, a me non interessa la perfezione come la cercava Michelangelo, la bellezza estetica. Importante è il messaggio. Vedi quest’altro con un blocco sullo stomaco che non riesce a togliere? Sarebbe l’uomo di oggi, schiacciato sotto il peso del suo stesso sapere».
Sulle Apuane non mancano gli scultori. «Gli altri però sono attrezzati, usano il computer; non c’è più nessuno che abbia voglia di mangiare la polvere come me. Io lavoro tutte le pietre che trovo, quelle che gli altri buttano via. Guarda questa che bella: già da sola è una scultura».
Ci fermiamo davanti alla sua opera più spettacolare: una intera parete rocciosa scolpita come un bassorilievo. «C’è dentro la storia passata e presente di queste montagne, il lavoro dei mortalai e dei cavatori come si faceva una volta, la ferrovia marmifera, i camion che passano dove prima era il percorso del treno…». E il futuro? «L’ho rappresentato in un mondo unito: io sono per la fratellanza dei popoli, non come Bossi che vuol dividere l’Italia. Vedi, c’è un consiglio mondiale lassù, sono tutti seduti lì per decidere il bene dell’umanità. Ricordati: o il mondo si unirà o verrà la fine». E si attarda nella spiegazione, tanto la scena è gremita di personaggi.
La visita prosegue. «Questo vecchio che innalza sulle spalle il giovane è come se dicesse: “Un giorno sarai tu a vedere per me! Guarda lontano, ti lascio la mia saggezza e la mia esperienza”. Ora invece non s’impara più dagli anziani. E questo è un “bamboccione” ancora attaccato alla mamma, che sembra gli dica: vattene, io non ti posso più aiutare. Vedi, lei tiene le mani dietro, però ha davanti altre piccole mani un po’ stilizzate (perché una madre col pensiero abbraccia sempre il figlio, anche se lo vuol mandare via). Sono sculture, ma vanno spiegate. A volte il significato lo scopro dopo, quando sono finite».
Prima di salutarci Mario raccoglie un frammento di marmo e in pochi minuti intaglia una figura col frullino elettrico. «Prendila, come ricordo». Ogni volta che la guardo, penso a lui, scultore naïf, filosofo e, soprattutto, libero.