Lo Hobbit

Quasi tre ore di avventure nel mondo fantastico che abbiamo imparato a conoscere con il "Signore degli anelli", di cui il film ora nelle sale narra l'episodio antecedente. Effetti speciali da brivido. Notevoli anche le pellicole di Ken Loach e Mike Newell
Lo Hobbit

"La parte degli angeli". Toccante, Ken Loach lo è sempre. Anche se non risparmia l’umorismo scozzese per stemperare il dramma di chi dalla vita ha ricevuto solo sfortuna. È quanto capita al ragazzo Robbie di Glasgow, vittima di un ambiente degradato, che lavora dopo il carcere ai servizi sociali con un gruppo di amici, maltrattati dalla vita come lui. Ritratto-metafora-favola, il film del settantaseienne regista ha un tocco brillante, rapido, battute a raffica sul semiserio e un cast folgorante e “naturale”. Descrive la vita di tanti giovani d’oggi, senza famiglia, sbandati eppure bisognosi di affetto e lavoro. Così Robbie scopre la paternità, ma pure la durezza di realizzare un minimo sogno. Anche se qualcuno ti può dare una mano. Ma che fatica, anche solo sognare. Ancora una volta Loach fa centro. Il disagio giovanile che va ben oltre Glasgow è di fatto il dolore di un'intera generazione cui è faticoso parlare di speranza.

"The Hobbit". Dura 173 minuti ma non si sentono. Perchè il mondo fantastico che si muove in 3 D con una scenografia  coloratissima, episodi avventurosi che si susseguono a incastro con facilità e naturalezza e la passione dei protagonisti per il fascino del misterioso e della lotta fra la luce e  il male – anche da parte di un hobbit tranquillo come Bilbo Baggins – seduce tutti quelli che hanno voglia di lasciarsi andare al gusto del magico e della saggezza sparsa qua e là in massime di buon senso. Prequel del "Signore degli anelli", il filmone con le sue corse tra l’orrido, il mitico, il celestiale e lo stravagante, attraverso la miriade di personaggi piccoli e grandi, è una favola che fa volare e pensare. Non sveliamo il finale per non togliere il gusto di questo brillantissimo viaggio nell’avventura più avventurosa che ci sia. Da favola gli effetti speciali.

Con "Tutto tutto niente niente", regia di Guido Manfredonia, ricapitiamo nell’Italietta viziosa e corrotta – e molto stupida – di una certa politica. Antonio Albanese, nuovo Grillo della satira politica nostrana, si fa in tre per dar voce e corpo a tre onorevoli, due del Sud e uno del Nord-Est che approdano in Parlamento per godersela. Pungente, surreale, clownesco il film infiocchetta – siamo a Natale – scenette che vorrebbero esser ridicole-comiche-satiresche. Albanese è attore bravo da par suo. Il suo film (in fondo è lui il factotum), anche se mantiene dei comprimari in gamba (Lunetta Savino, Fabrizio Bentivoglio e Paolo Villaggio che non parla ma mangia) è di un grottesco sopra le righe che non salva nessuno. Va bene che è di moda cavalcare l’antipolitica nostrana, ma nel film si ride poco. Forse perché è tutto “troppo”…o perché è qualcosa di déjà vu?

"Grandi speranze". Mica facile trasporre sullo schermo i capolavori letterari, di Dickens poi… Ma Mike Newell, con un cast stellare – Ralph Fiennes, Helena Bonham Carter – riesce a raccontare la storia dell’orfano Pip e della sua scalata nella società inglese dell'Ottocento con un superbo adattamento, in cui il cuore del racconto non va perduto, anzi evidenziato. Grazie agli attori, sopratutto, ma anche ad una regia attenta, centrata. L’uso della luce, nelle albe  e negli interni è sapiente e calcolato a dar vita ai sentimenti, come la fotografia che usa i primi piani con una perizia tale da fare di ogni volto un ritratto d’anima. Della serie: esistono ancora i grandi film in costume.

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