Lo chiamavano Jeeg Robot

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Locandina Lo chiamavano Keeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot

Un Claudio Santamaria sovrappeso è Enzo Cecchetto, ladruncolo periferico romano, dal difficile carattere che, casualmente entrato in contatto con sostanze radioattive, acquista superpoteri. Il Superman nostrano o meglio romano vuole approfittarne per dare un lancio al mondo criminale di cui è capo un Luca Marinelli cattivissimo e stralunato, pazzo per la musica degli anni Ottanta. Se all’inizio tutto funziona, poi cominciano i guai, anche perché Enzo si perde dietro ad una ragazzina  un po’ fuori di testa, convinta che lui sia la personificazione del personaggio dei fumetti giapponesi Jeeg Robot.  Cosa sceglierà il nostro, cambiare vita o meno? Tagliente, ironicamente borgataro, il fantasy nostrano un po’ romantico, un po’ violento, un po’ surreale è diretto da Gabriele Mainetti con intelligenza, gusto  per le acrobazie del genere, caratterizzazione realistica dei “tipi”. Interpretazione degli attori ottima, anche dell’esordiente Ilenia Pastorelli. Atipico. Per chi ama le (poche) novità in Italia.

Tirami su

Fabio  De Luigi si è lanciato come attore e regista di una commedia dove si racconta di lui (Antonio), rappresentante sanitario con troppa fantasia e scarsi risultati, di sua moglie  Aurora – una brava Vittoria Puccini ‒ intelligente e affettuosa, del cognato Franco (Angelo Duro) cinico trentenne divorziato e dell’amico Marco, depresso e indebitato. Una vita modesta, se non mediocre. Ma ecco la sorpresa. Antonio dimentica un tiramisù fatto dalla moglie, in uno studio medico: il dolce fa impazzire di gioia un medico che lo assaggia e da quel momento la vita del nostro cambia, è in ascesa, lui di scrupoli non se ne fa, perde l’innocenza, si direbbe, e trascura la moglie. Ma non tutto va come Antonio penserebbe…

Favoletta un po’ fantasiosa, un po’ contemporanea, con cadute di gusto ed ovvietà, il film non prende troppo. Manca il ritmo agile, la sorpresa di nuove trovate e il superamento dei consueti cliché. De Luigi si è impegnato, ma la verve suona un po’ posticcia. Speriamo meglio.

Il Club

Una casa in un luogo isolato di fronte al mare. Qui vivono quattro sacerdoti per espiare colpe del passato tra preghiera, desiderio di pentimento, ossessione, regime spartano di vita sotto l’occhio vigile di una suora. La fragile stabilità della routine è messa in crisi dall’arrivo di un quinto uomo dal passato doloroso e gli equilibri saltano. La scena diventa drammatica, i conflitti latenti esplodono. Pablo Larraìn nel suo quinto film, vincitore del Gran Premio della Giuria alla Berlinale 2015 ha lavorato a fondo sulle storie di preti costretti ad una vita fuori dalla società, raccontandolo in un lavoro claustrofobico, doloroso, inquietante e irrimediabilmente desolato, come la fotografia del luogo, e come se non ci fosse possibilità di riscatto. Un film sulla morte più che sulla vita e la redenzione, affidato ad un cast perfetto, tra cui emerge Alfredo Castro.

God of Egypt

Trionfo del neo-peplum e degli effetti speciali nel filmone di Alex Proyas dove gli dei egiziani si combattono tra loro, ma ci sono due ragazzi innamorati ben più scaltri e più intelligenti, tutto sommato, di loro: a dire che gli umani sono indispensabili anche agli dei dell’Egitto! Sulla scia di Immortals, La Mummia, 300 e amici lo spettacolo è assicurato tra uragani, voli iperbolici, duelli acrobatici, scenografie possenti e un ritmo che non perde un minuto ed arriva sino a dove vuole, cioè al divertimento sognante e favolistico assicurato. Tranquillizzante.

Ancora in sala: Anomalisa di Charlie Kaufman e Duke Jonhson, storia d’amore per nulla scontata; God’s not dead di Harold Cronck, commedia-sfida tra  un intellettuale ateo e uno studente cristiano.

 

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