Lo charme di Georges Pretre

Se n’è andato, dopo una vita molto ricca, uno dei più grandi direttori d’orchestra dei nostri tempi. Personaggio discreto, direttore di prestigiosi allestimenti alla Scala
Georges Prêtre chef d'orchestre

Alto, elegante, fisico sportivo asciutto, occhi ridenti, Pretre avanzava verso il podio – anche quando aveva compiuto novant’anni – con sicurezza. Nessuna tensione, nessun atteggiamo divistico, nessuna esibizione carismatica. Eppure era uno dei più grandi direttori del nostro tempo.

Figlio di un calzolaio nella Bretagna francese, si era diplomato in tromba e durante la guerra per vivere suonava nei locali jazz, persino nell’orchestra di Glenn Miller. Poi, la carriera fulminante in patria, all’Opéra di Marsiglia, all’Opéra di Parigi e da qui il volo verso Londra, il Covent Garden, New York, il Metropolitan, Salisburgo e La Scala. I milanesi l’hanno molto amato, fino al 22 febbraio 2015 quando diresse divinamente, entusiasmando non solo il pubblico, ma anche l’orchestra. Come succedeva dovunque andasse, anche a Roma, ospite stabile dell’Accademia di Santa Cecilia.

Personaggio discreto, legato alla moglie Gina da 65 anni, amico della Callas che diresse a Londra in una memorabile Tosca nel ’65 (l’unico filmato di un’opera della cantante), direttore di prestigiosi allestimenti alla Scala: tra essi La Bohéme con Pavarotti e la regia di Zeffirelli, Les Troyens di Berlioz con la regia di Ronconi. Insomma, un gigante dell’interpretazione.

Ma Pretre non era né un musone né un divo né una sorta di guru della direzione. Socievole, brillante, curioso, ma attento ai rapporti, entusiasmava le orchestre. Il gesto era sintetico, deciso, dirigeva più colla mimica del volto che con le mani. Ma dalla figura eretta e ben vestita usciva una forza che creava un suono inconfondibile. Leggero, vaporoso, e insieme possente. Egli sapeva creare l’unità dentro l’orchestra, facendo sì che ogni strumento, ogni sezione sentisse sé stessa e le altre e lo sentisse il pubblico, in una sorta di corrispondenza di sentimenti d’amore per la musica.

Uscivano delle sonorità certo molto “francesi”, ossia fascinose, raffinate, trasparenti: il suo Bizet, il suo Debussy, il suo Ravel, il suo Poulenc – diresse la prima mondiale della Voix humaine – erano punti di riferimento e lo rimangono. Ma quando affrontava Brahms o Ciaikovski o Mahler allora il suono si gonfiava, rimanendo però miracolosamente soffice e chiarissimo. Non dirigeva la musica contemporanea: «Non la capisco», disse con sincera umiltà.

Amava l’Italia e ovviamente Verdi. Si preparava meticolosamente, studiava, aveva una tecnica formidabile, ma non la faceva apparire, non era di quelli che parlano molto sfoggiando citazioni per mostrarsi colti. Pretre viveva quello che dirigeva e tutto perciò diventava seducente, facile, fresco

Ascoltandolo e vedendolo, e m’è capitato spesso, si avvertiva un magia particolare, come un senso di mistero. Da credente, Pretre accettava il mistero, con serenità, e nella sua interpretazione si coglieva la volontà di entrarvi, di dipanarlo con quel linguaggio che solo la musica sa esprimere.

Se n’è andato, circondato dalle persone care a 92 anni, nel suo castello in Francia dopo un vita quanto mai ricca. E se n’è andato come quella volta che l’ho incontrato a Roma, dopo un concerto, con un gran sorriso e il suo italiano melodiosamente francesizzante, di uomo curioso di tutto, attento, così come mi era apparso: uno che non aveva mai conosciuto la vecchiaia, tanto era fresco e vivo come a vent’anni.

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