Livatino, il giudice ragazzino
È importante associare il 3 ottobre al giorno in cui nacque Rosario Livatino, perché di uomini valorosi come lui è bene omaggiare la vita, ancora prima che denunciare doverosamente, dolorosamente, il modo tragico in cui la loro storia ha avuto fine. È bene tenere viva la memoria della loro nascita per rimarcare l’importanza della loro esistenza, l’esemplarità delle loro nobili azioni, dei valori difesi fino alla morte. Anche se poi, proprio pochi giorni fa, il 21 settembre scorso, sono ricorsi i 30 anni dall’uccisione del giovane giudice siciliano, avvenuta, quando non aveva nemmeno 38 anni, per mano mafiosa. Ed è bene non dimenticare nemmeno questo.
Quel giorno andava al tribunale, Rosario Livatino, con la sua Ford Fiesta amaranto senza scorta, per non far spaventare i genitori: persone semplici, anziane, umili, ci racconta un film tutto dedicato a quest’uomo normale fisicamente ma potente nell’anima, capace di affrontare la forza criminale della stidda – la mafia agrigentina – con le sole armi del suo lavoro, con l’esercizio onesto e rigoroso del suo mestiere, di combatterla con tutto se stesso senza cedere di un passo. Ci dice anche altre cose, questo film del 1994, diretto da Alessandro di Robilant e intitolato Il giudice ragazzino, da una frase con cui l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, parlò di giovani giudici definendoli «ragazzini», e non era certo un complimento, anche se anni dopo, con una lettera al Giornale di Sicilia, disse che non si rivolgeva a Livatino, e anzi lo definì «coraggioso, integerrimo, esemplare servitore dello Stato, martire civile e santo nel senso cristiano del termine».
In ogni caso, Il giudice ragazzino ci parla di un uomo che non divideva il privato dal professionale, e non perché non avesse desiderio di innamorarsi o vivere con spensieratezza il tempo libero, ma perché le sue scelte obbligavano a un comportamento che la pellicola (scritta da Andrea Purgatori e Ugo Pirro ispirandosi liberamente al romanzo omonimo di Nando Dalla Chiesa) ricorda costruendo il suo incipit con una vera conferenza tenuta da Livatino: «Il magistrato è colui al quale – dice il personaggio che valse il David a un bravissimo Giulio Scarpati – è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi in completa indipendenza da ogni centro di potere, politico o mafioso. L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella libertà morale e nella fedeltà ai princìpi, ma anche nella trasparenza della sua condotta fuori dal suo ufficio, nella libertà e nella normalità delle sue relazioni, nella sua indisponibilità a iniziative e affari, nella scelta delle amicizie».
A queste parole il film fa corrispondere una solitudine del personaggio nei locali del tribunale, dove nel migliore dei casi il suo spirito deciso e retto viene assecondato senza entusiasmo, e in un privato nel quale i sentimenti si scontrano e si ghiacciano con la sua vita a rischio che terminò sotto i colpi di un sicario oltre il guard rail, tra l’erba intorno alla statale 640. Per fortuna qualcuno vide e soprattutto ebbe il coraggio di parlare: il suo nome è Pietro Nava e anche a lui, alla sua storia da allora difficile, dura, coraggiosa, nel 1997 il regista Pasquale Pozzessere ha dedicato un film dal titolo Testimone a rischio, affidando il ruolo alla bravura limpida di Fabrizio Bentivoglio. E anche questo è un film importante, un altro servizio che il cinema rende alla società, al bisogno che abbiamo di vedere il bene, il giusto incarnato nella gente comune.
Perché comune e insieme straordinario era anche Rosario Livatino del quale va sottolineato un altro aspetto importante: quello della sua fede. Il giudice ragazzino lo mostra delicatamente, ne fa cenno con paio di sequenze in chiesa, di lui in preghiera, ma su quest’uomo che Giovanni Paolo II definì «martire della giustizia e indirettamente della fede» e per il quale è stato avviato un processo di beatificazione, parlano anche altri testi audiovisivi. Se ne dà testimonianza nel documentario di Davide Lorenzano, Il giudice di Canicattì, del 2016, che adopera come voce narrante proprio quella di Giulio Scarpati e offre un ritratto articolato, umano e professionale, di Rosario Livatino, e in un altro film, una docufiction, che indaga i suoi aspetti spirituali e di altruismo. È del 2006 e si intitola Luce verticale, Rosario Livatino, il martirio, per la regia di Salvatore Presti. Sono lavori da considerare complementari, quelli appena citati, spalmati nel tempo e da intendere come diversi capitoli di un unico desiderio: quello di non dimenticare, di tenere con noi un esempio luminoso nella difficile strada che ogni giorno abbiamo davanti. Il giudice Rosario Livatino.