Litigare bene è un’arte difficile, soprattutto sui social network
Le meraviglie del mondo globalizzato
Quando frequentavo le scuole superiori, negli anni Novanta, l’incipit più in voga per i temi di italiano era senza dubbio: «Alle soglie del nuovo millennio». Poi, di solito, gli elaborati proseguivano col racconto delle meraviglie del mondo globalizzato e multiculturale che aspettavano noi giovani di allora: un futuro in cui tutte le diverse culture, convinzioni religiose e idee avrebbero trovato spazio e si sarebbero magicamente armonizzate.
Quelli erano gli anni Novanta e quella era la maniera un po’ sbrigativa in cui una generazione con i piedi nell’analogico e la testa nel digitale cercava di compiacere i propri professori di lettere. Ma la situazione a cui assistiamo oggi è un po’ più complessa: ci siamo infatti resi conto che dialogare è un’arte difficile e che non basta ignorarsi e non offendersi reciprocamente per portare avanti un discorso; abbiamo cominciato a comprendere che un conflitto non è una guerra, ma un processo (mi sto riferendo qui all’idea di conflitto generativo elaborata da Ugo Morelli) capace di mostrare possibili vie di dialogo; abbiamo rinunciato all’idea di polarizzare la nostra esperienza attorno alle sole categorie di guerra e pace.
Tutto questo discorso diventa ancora più intricato quando lo spazio del confronto è quello del web.
Hate speech e leoni da tastiera
I teorici dei social network, posti di fronte alle frequenti risse digitali tra anonimi utenti, politici e influencer, hanno speso negli anni parole molto dure per condannare gli attacchi gratuiti e i cosiddetti leoni da tastiera, ma alla prova dei fatti (e dei like) gli insulti e le polemiche distruttive accendono passioni da stadio e rendono virali i contenuti, mentre le regole del bon ton annoiano e basta.
La differenza tra dissentire e litigare
Detto questo, per non correre il rischio di banalizzare un fenomeno complesso, sarà bene avere presente una distinzione importante, e cioè quella tra dissentire e litigare. Provo a sintetizzare: mentre “dissentire” significa mostrare un punto di vista altro e argomentare una posizione senza paura del conflitto, “litigare” equivale ad arrendersi prima di fuggire, perdendo ogni possibilità di confronto e rimanendo arroccati sulle proprie posizioni.
«Litigare in fondo serve a schivare l’oggetto del dissenso» scrive Bruno Mastroianni, nel suo ultimo saggio «Litigando si impara. Dissentire SENZA LITIGARE sui social network, sui media e in pubblico» (Franco Cesati editore), nel quale pone una questione cruciale per il nostro quotidiano vivere, fuori e dentro i social: «Come ci comportiamo quando ci troviamo coinvolti in scontri che sembrano ormai destinati a finire male?».
Una fenomenologia del litigio
Mastroianni propone un’efficace fenomenologia del litigio e dimostra come litigare sia un errore che conduce sempre a sostenere le divergenze anziché a conciliarle. Litigare ci fa perdere di vista l’oggetto del nostro discorso (non ci interessa più quello di cui stavamo parlando ma solo il litigio) e produce il fastidioso effetto di mettere in bella vista tutte le debolezze dei litiganti, ma (ecco il punto) finisce per diventare una forma di intrattenimento, perché «il litigio come forma “spettacolarizzata” di discussione, è diventato negli anni motore e ingrediente indispensabile dell’industria dei media (…) e nella dimensione online ha dato forma al discutere delle persone».
Costruire relazioni significative
Siamo arrivati al punto che la comunicazione, scrive Mastroianni, è ormai soprattutto comunicazione di crisi, cioè «capacità di mantenere buone relazioni quando le cose non sembrano andare per il verso giusto». Discutere significa dunque, oggi più che mai, gestire il dissenso. E a fare la differenza, in questo contesto, sono le persone capaci di costruire «sul dissenso e sulla discussione relazioni significative con chi gli sta attorno».
Rinunciare a creare relazioni significative, anche in Rete, equivale ad accettare la «morte del prossimo» annunciata tempo fa da Luigi Zoja, che è frutto della rinuncia a quel lavoro di mediazione continua che è essenziale per trasformare l’incontro in relazione.