L’italiano, una lingua universale
Sbaglia chi pensa che una lingua sia solo un baule di parole sorrette da un metodo per organizzarle. Dietro ogni lingua c’è un mondo di cultura, di abitudini, e per molti versi, anche l’anima più profonda di un popolo. Ci riflettiamo poco, ma è davvero così.
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Che l’italiano sia una lingua difficile e meravigliosa è cosa nota a tutti. Pochi sanno, invece, che recentemente è tornata a essere anche una delle più studiate al mondo.
Figlia del latino dei romani e del fiorentino trecentesco, contaminata da un’infinità di ruspanti dialetti, la lingua italiana è attualmente tra le venti più parlate del pianeta, ma oscilla tra il quarto e il quinto posto tra le più studiate. E il trend continua a incrementarsi in modo consistente al ritmo di circa 200 mila nuovi studenti ogni anno. Le ragioni sono presto dette: da un lato il gran numero di figli e pronipoti di nostri emigrati sparsi nel mondo e ansiosi di riannodare le trame del proprio passato, dall’altro questa gran voglia d’Italia cui abbiamo più volte accennato.
Una tendenza piuttosto recente, ma che trova precedenti già nel Quattrocento e, più ancora, nel Seicento, quando la nostra scena musicale era di gran moda in tutta Europa, al punto da imporre termini che ancora oggi fanno parte dal lessico dei musicisti d’ogni genere e nazionalità. Quando tramontò la nostra supremazia artistica, e il francese e poi l’inglese divennero depositari di gran parte dei termini tecnici d’uso universale, l’italiano sopravvisse nel mondo soprattutto grazie ad alcune parole simbolo, come ciao, e a un’infinità di altri vocaboli, molti dei quali riconducibili alle nostre delizie gastronomiche, per non dire dei mille toponimi nostrani coi quali nel mondo si definiscono prodotti e ricette, modelli d’auto e oggetti di design.
Sarà fors’anche per questo che, all’inizio del 2016, è arrivata una notizia importante: la lingua italiana è stata finalmente inclusa tra quelle ufficiali dei concorsi dell’Unione Europea; un’altra bella conferma di questa rinascita.
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Se nell’Ottocento letterati illustri come Manzoni e Leopardi lamentavano una sostanziale frattura tra l’italiano delle classi colte e quello dialettale del popolo, oggi, nell’era dei social e degli sms, i rischi maggiori appaiono quelli del suo impoverimento, ancor più aggravato dallo strabordare dei neologismi importati direttamente dall’inglese: «La parola in questo tempo terribile e angosciante – affermò il poeta Mario Luzi – è stata troppo adulterata, la menzogna ha troppo spesso corrotto… La poesia, senza vere medicine miracolose per risarcire le ferite, richiama l’uomo di fronte a se stesso. Gli fa sentire ciò che gli viene tolto. Scuote la coscienza, risveglia qualcosa di oscuro, denunzia i desideri e gli impulsi che sono stati soffocati… Si oppone a questi tempi urlati».
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Oggi la salute della nostra lingua è – come per quasi tutti gli idiomi in circolazione – direttamente dipendente sia dalla globalizzazione in corso (che è anche linguistica, con lo strapotere dell’inglese anglo-statunitense), sia dall’avvento di sempre nuove conoscenze, tecnologie, professioni. L’italiano del Terzo Millennio è parlato da milioni di nuovi immigrati cinesi e terzomondiali, e continua a mantenere sia il suo tradizionale ruolo di ponte fra culture arabe e mediterranee che di scrigno degli antichi tesori delle civiltà greco-latine. Una lingua comunque ben viva, e come tale destinata a continue mutazioni, anche nelle regole: a parte il rischio d’estinzione dei congiuntivi, basti pensare all’obbrobrioso a me mi ormai considerato accettabile da molti linguisti (almeno nel linguaggio parlato, dove è considerato una sorta di rafforzativo), così come gli al posto di loro, o viceversa, a pronomi come egli ed ella ormai del tutto desueti.
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Ma quale futuro attende la nostra lingua? Se lo era chiesto anche Umberto Eco, nel corso di un convegno tenutosi al Quirinale nel 2011. Partendo dal sacrosanto postulato che l’evoluzione è nella natura stessa di ogni lingua che aspiri a non sparire, il più celebre dei nostri professori stigmatizzava la perdita progressiva del nostro patrimonio dialettale (pur sottolineandone i limiti), celebrava l’avvento del basic italian imposto alla nazione dalla tivù, sosteneva che il parlare dei tassisti odierni è più o meno all’altezza di quello di un laureato degli anni Trenta, ma che quello dei loro figli è sempre più povero e incontrollato, anche se sono laureati. «Forse in futuro – affermava –, iniziando da Facebook e poi passando all’uso di vari siti per copiare i risultati di qualche ricerca, a poco a poco una percentuale ragionevole di giovanissimi inizierà a leggere quello che su Internet, vero o falso che sia, è scritto. Ma quanti saranno capaci di distinguere la buona lingua di certi siti dall’italiano coatto di certi blogger? A che cosa sarà più simile allora l’italiano medio di domani? A quello dei proletari ormai acculturati, o a quello degli studenti ormai decerebrati?». Neanche lui volle azzardare una profezia precisa.
Da MILLE ITALIE, Storie e soprese del Belpaese nel mondo, di Franz Coriasco (Città Nuova)