L’italiano che mi serve
Costituiscono il 10 per cento della popolazione residente nella capitale e provengono da tutto il mondo. Sono gli immigrati che a Roma superano ormai le trecentomila unità. Per la maggior parte romeni (un quinto del totale), seguiti da filippini con circa 23 mila presenze, polacchi (quasi 17 mila) e da tanti altri gruppi nazionali con più di 5000 unità: albanesi, peruviani, indiani, cinesi, ecuadoregni, egiziani, cingalesi… Vivono un po’ dappertutto nella città – anche se alcune aree registrano una certa concentrazione – e abitano in tutti i tipi di alloggi: dagli accampamenti sulle rive del Tevere ad appartamentini più o meno regolari e dignitosi. In quanto all’occupazione li troviamo impegnati soprattutto nel settore delle costruzioni, e poi, nell’ordine, in attività immobiliari e pulizie, alberghi e ristoranti, trasporti e agricoltura. Una parte di loro, ben 7 mila, ha intrapreso la via micro- imprenditoriale con preferenza per il settore dei servizi e una particolare concentrazione nel comparto alberghiero. Quelli dell’est europeo si dedicano ad attività industriali e principalmente all’edilizia, mentre cinesi e marocchini sono specializzati in commercio e ristorazione. I filippini eccellono nei lavori domestici e nell’assistenza ad anziani e disabili. Insomma un mondo composito che sempre più fa parte della città a tutti i livelli, tant’è che da un anno a questa parte anche in Campidoglio sono presenti cinque consiglieri municipali non italiani che lo rappresentano. Come si può immaginare, in una popolazione così numerosa si può incontrare di tutto: dal disperato fuggito dal proprio paese per non morire di fame alla madre di famiglia che si sacrifica per garantire ai figli un futuro migliore, dall’analfabeta al laureato… Per tutti, comunque, si può immaginare una condizione di disagio, almeno iniziale, a muoversi nei meandri di una grande città con quasi tre milioni di abitanti dove gli stessi romani, nativi o acquisiti, spesso faticano a districarsi. Come loro anziani, disabili, bambini, persone bisognose di formazione oltre che di sostegno economico…: tutta una fascia sociale, neanche troppo piccola, che, se non adeguatamente presa in considerazione, può rischiare l’esclusione dal circuito vitale della città stessa. E si può ritenere che il più delle volte le difficoltà più grosse siano quelle quotidiane riguardanti la ricerca di un lavoro, la scuola dei figli, l’assistenza sanitaria, i bisogni della famiglia. Tante le richieste e numerose le risposte in una città che, comunque, è attenta all’integrazione sociale non solo nei suoi amministratori ma anche nei tanti organismi (Caritas in testa) che rivolgono il loro operato a soddisfare questo tipo di necessità. Fra le iniziative con una valenza socio-culturale ce n’è in corso una che nel suo stesso nome fa intuire il suo scopo: L’italiano che mi serve. Un corso di italiano, appunto, volto a fornire gli elementi linguistici necessari alla vita quotidiana, soprattutto degli immigrati, ma non solo. Giunto alla sua terza edizione, registra infatti quest’anno un aumento degli iscritti italiani che costituiscono il 15 per cento del totale. Gli obiettivi di fondo del corso sono conoscere la città, i suoi servizi sanitari, educativi e di tempo libero, capire un’offerta di lavoro, conoscere diritti e doveri di ogni cittadino, riuscire a sbrigare una pratica… Il fatto che molti si fermino ad un livello solo iniziale di conoscenza dell’italiano, tale da non permettere loro, anche per anni, di sentirsi a proprio agio nelle diverse situazioni di vita quotidiana lavorativa e relazionale, deve essere considerato non solo come una questione di apprendimento, quanto soprattutto come un fattore di rischio, che attiene sia alla sfera individuale che a quella della coesione sociale, afferma l’assessore alle politiche educative e scolastiche Maria Coscia che considera il rispetto del diritto di ogni cittadino alla conoscenza e all’apprendimento come un fattore primario per eliminare diffidenze, pregiudizi, atteggiamenti di chiusura. Il corso funziona in maniera semplice ma efficace: organizzato su quattro tematiche (lavoro, scuola, famiglia, salute), prevede per ognuna di esse un modello di 20 ore di lezione seguite da incontri di approfondimento con esperti ed organismi attivi sul territorio, alla presenza di un mediatore culturale. Nell’anno 2004 sono stati attivati 18 corsi cui si sono iscritti 305 migranti di diverse nazionalità Quest’anno gli iscritti sono 600 divisi in 27 corsi. Ma com’è nato il progetto? Esso è il frutto di una collaborazione, anzi di una convergenza fra vari enti, impegnati, seppur in forme diverse, nell’educazione degli adulti. Sandra Monaco del decimo Centro territoriale permanente (Ctp) di Roma, uno dei promotori del corso, me ne racconta la genesi: Tramite l’Istituto regionale di ricerca educativa del Lazio, che cura l’aggiorna- mento dei docenti, abbiamo fatto quattro anni fa dei laboratori interregionali fra Emilia Romagna, Lazio e Campania per produrre unità didattiche finalizzate a integrare formazione ed educazione. Successivamente con un gruppo ristretto di docenti coordinati abbiamo elaborato il testo che adesso, ulteriormente rifinito, viene usato per il corso. Sede de l’Italiano che mi serve sono proprio i locali dei vari Ctp, istituzioni statali che offrono una serie di servizi riguardanti la formazione permanente degli adulti, dall’inglese all’informatica, ma anche la licenza di terza media o corsi nei centri anziani. In particolare, poi, il Ctp che interpello, è sede degli esami per la certificazione della conoscenza dell’italiano da parte dell’università per stranieri di Perugia. Una convenzione che sottolinea il ruolo educativo e culturale svolto dai Centri territoriali nell’insegnamento della lingua italiana agli immigrati. Il fatto poi che alcuni appuntamenti del corso si svolgano nelle biblioteche comunali avvicina i corsisti ad un servizio importante. Tanti i partecipanti che, avendone scoperto l’opportunità di aggregazione culturale, hanno richiesto la tessera di iscrizione alle biblioteche per poterne usufruire anche indipendentemente dal corso stesso. L’italiano nelle carceri La novità del 2005 è l’estensione del progetto anche agli istituti carcerari della città sulla scia di un progetto di collaborazione che già da tempo le Biblioteche di Roma portano avanti nei penitenziari della capitale. Novanta i detenuti che ne usufruiscono. Ce ne parla il dott. Poggiali, presidente delle Biblioteche, che definisce questa parte del progetto fra le più interessanti perché in carcere ci sono persone che hanno vite non ordinarie, storie drammatiche e dunque c’è una grande motivazione in quelli che partecipano a queste attività . Le Biblioteche di Roma sono dentro le carceri in virtù di una convenzione di alcuni anni fa fra il Dap (Dipartimento affari penali) e il Comune, in esecuzione di una legge nazionale la quale prevede che le biblioteche civiche svolgano il loro servizio anche nelle carceri delle città. Il progetto, molto articolato, oltre alla fornitura dei libri, alla disponibilità di un accesso on line ai cataloghi delle altre sedi, promuove la gestione della biblioteca da parte dei detenuti che vengono formati man mano. E qualcuno poi continua a lavorare in questo ambito attraverso cooperative. Uno dei tanti risultati positivi che abbiamo potuto riscontrare è l’invito che tanti detenuti, in seguito a questo tipo di esperienza, rivolgono ai loro familiari di iscriversi alle biblioteche comunali, sottolinea il dott. Poggiali. Che poi mi spiega la motivazione di fondo di questo progetto, lo spirito con cui viene portato avanti. Da sempre abbiamo rifiutato il concetto di fare delle cose speciali per gente speciale. Noi partiamo dal principio che anche i carcerati sono cittadini come tutti gli altri e che per questo debbano partecipare a tali opportunità sapendo che abbiamo tutti gli stessi diritti, anche se ci possiamo trovare in condizioni differenti. Logicamente non si può far finta di non vedere tutto ciò ma la nostra azione deve essere quella di rimuovere gli ostacoli. Non è tanto un atteggiamento di mera carità (pur essendo presente questo valore umano), non è un gesto di generosità che noi potremmo anche non fare. Ci stiamo semplicemente adoperando per la realizzazione di un loro diritto che rientra in quella funzione rieducativa che il carcere dovrebbe esercitare. UN CENTRO PER IL TERRITORIO I Centri territoriali permanenti (Ctp) nascono nel 1999 dal Ministero della pubblica istruzione in sostituzione della legge delle 150 ore che dalla fine degli anni Sessanta prevedeva la possibilità che i lavoratori usufruissero di 150 ore, appunto, di formazione all’interno dell’orario lavorativo. Ciò garantiva il diritto dei lavoratori e degli adulti in genere a continuare, a sviluppare ad arricchire in età adulta quella formazione che nella prima età della vita era stata impedita. Il riferimento più alto e autorevole i Ctp lo traggono dalla V Conferenza Mondiale dell’Unesco dove ben 135 paesi – tra cui l’Italia – hanno sottoscritto un documento nel quale si impegnano allo sviluppo dell’educazione degli adulti puntando a rendere effettivo il diritto a un’ora al giorno di apprendimento per tutti gli adulti del mondo. Oggi i Ctp sono una realtà di rilievo in tutta Italia.