L’Italia che va in pezzi
In questa estate dei crolli, l’ultimo avvenuto a Roma il 30 agosto – improvviso e imprevedibile – ha riguardato un’antica chiesa romana: San Giuseppe dei Falegnami, spesso usata per cerimonie nuziali a motivo della sua intima bellezza e del suo affaccio sul Foro ai piedi del Campidoglio. Uno schianto e un boato poco prima delle 15, e gran parte del soffitto seicentesco è crollato ingombrando l’interno con un cumulo di travi, tegole e calcinacci. Per fortuna senza fare vittime, in orario di chiusura al pubblico; e senza conseguenze sui sotterranei che inglobano uno dei monumenti più famosi di Roma: quel Carcere Mamertino dove languirono e trovarono la morte illustri nemici di Roma e che una tradizione medievale indica anche come prigione degli apostoli Pietro e Paolo. Al momento del sinistro, in quest’ultimo sito gestito dall’Opera Romana Pellegrinaggi c’erano alcuni operatori e visitatori, fatti evacuare in tutta fretta mentre fuori ancora non si era diradato il polverone del crollo.
Tanto vasto è il patrimonio storico-artistico del nostro Paese che risulta estremamente difficile, se non impossibile evitare sorprese del genere, anche con una manutenzione ordinaria. Basta che ceda un solo tirante delle capriate o una trave tarlata perché un tetto venga giù, come probabilmente deve essere accaduto a San Giuseppe dei Falegnami. E pensare che la chiesa era stata oggetto di restauri soltanto tre anni or sono! Già è avviato l’iter per accertare le responsabilità, ma in attesa che entrambi i monumenti tornino agibili, ecco qualche cenno per chi non li conosce.
La chiesa venne iniziata nel 1597 per volontà della Congregazione dei Falegnami, che la dedicarono al loro santo patrono, san Giuseppe, sulla preesistente chiesetta di San Pietro in Carcere. I lavori, affidati al grande Giacomo della Porta, proseguirono fino al 1663 sotto la direzione di altri architetti. L’interno, a navata unica con due cappelle per lato, rispecchia la decorazione dell’ultimo grande restauro, quello del 1886, con statue e dipinti di grande pregio come una Natività di Carlo Maratta (1651), oggi portata in salvo dai vigili del fuoco assieme ad altre opere che è stato possibile rimuovere. Nel crollo del bellissimo soffitto intagliato e dorato, qualche danno ha riportato la cinquecentesca cappella del Crocifisso, posta tra il pavimento della chiesa e la volta del sottostante Carcere Mamertino, che sostanzialmente ha retto malgrado qualche fenditura.
Situata in un’area del Foro dove un tempo si amministrava la giustizia, questa era la prigione più antica di Roma, costruita su due piani di grotte scavate nel tufo del Colle Capitolino, la più profonda delle quali, ricavata nella cinta muraria di età regia, risale all’VIII-VII secolo a. C.; mentre quella sovrapposta, più recente, è di età repubblicana. L’accesso attuale è dalle sostruzioni della chiesa sul Clivo Argentario, così chiamato dalle botteghe degli orefici (argentarii), tramite una rampa che discende ai due livelli di questo lugubre sotterraneo senza aperture. Nel pavimento del primo ambiente un foro circolare, oggi chiuso da una grata, era l’accesso originario alla sottostante camera, nella quale vennero lasciati languire, per poi essere strangolati o decapitati o lasciati morire d’inedia, prigionieri di Stato come Giugurta, re della Numidia (104 a. C.), Vercingetorige, capo dei galli (49 a. C.), i senatori Lentulo e Cetego, congiurati catilinari (63 a. C.), Seiano, il prefetto del pretorio di Tiberio, con i suoi figli (31 d. C.), ed altri: tutti elencati in una memoria marmorea.
Celebre la descrizione fornita dallo storico Gaio Sallustio Crispo: «Nel carcere vi è un luogo chiamato Tulliano, un poco a sinistra salendo, sprofondato a circa dodici piedi sotto terra. Esso è chiuso tutt’intorno da robuste pareti, e al di sopra da un soffitto, costituito da una volta in pietra. Il suo aspetto è ripugnante per lo stato di abbandono, l’oscurità, il puzzo».
Nella cella più profonda si tramanda che vennero rinchiusi temporaneamente, prima di subire il martirio, gli apostoli Pietro e Paolo, insieme ad altri seguaci. Una targa ricorda che qui il principe degli apostoli cadde battendo il capo contro la parete e lasciandovi il segno: «In questo sasso Pietro da di testa/spinto da sbirri/et il prodigio resta». Qui stilla tuttora una sorgente, che i due apostoli avrebbero fatto scaturire miracolosamente: motivo di conversione per i loro carcerieri Processo e Martiniano. Tullus, in latino, significa appunto polla d’acqua; a meno che non si debba ricollegare l’appellativo di Tullianum all’iniziativa di Servio Tullio o Tullo Ostilio.
Labili tracce di affreschi, fra cui una delle prime raffigurazioni della Madonna della Misericordia datata XIII secolo, risalgono all’epoca in cui il Mamertino divenne un luogo sacro, meta di pellegrinaggi con la sovrapposta chiesetta di San Pietro in Carcere.
La conoscenza del monumento è stata ampliata dai recenti scavi, seguiti da restauri e dall’allestimento, nel 2016, di un museo con un percorso multimediale che consente di ripercorrerne la storia e vedere come doveva essere in origine. Ora anche per questo complesso sotterraneo, simbolo soprattutto di fede, saranno necessari lavori di messa in sicurezza e ripristino che ne allontaneranno chissà di quanto la riapertura.