L’Italia tra manovra finanziaria e speculazioni
La Grecia è ancora sull’orlo del baratro. E l’Italia? Quant’è alto il rischio speculazione? Cosa può fare lo Stato? Meglio tassare le rendite o i redditi? Intervista all’economista Benedetto Gui
Mentre il ministro delle Finanze Giulio Tremonti mette a punto la nuova finanziaria, che ancora una volta si annuncia di “lacrime e sangue”, con tre possibili scaglioni per l’Irpef e un aumento dell’Iva che ricadrà anche sulle fasce più deboli della popolazione, l’Italia è ancora nel mirino delle agenzie di rating: quelle che stabiliscono se uno Stato è affidabile, e dunque può pagare i debiti, oppure no.
Nel frattempo, tra annunci di crisi e repentini ripensamenti, resta alto il rischio speculazione. Può bastare una “voce”, non necessariamente veritiera, per far balzare verso l’alto i tassi di interesse sul nostro debito pubblico, come è successo lunedì. Allora, cosa fare? Recenti studi (dal World Wealth Report alla ricerca sulla clientela private dell’Aipb) evidenziano che la ricchezza degli italiani supera di gran lunga il debito dell’Italia in mano agli stranieri, pari a 779 miliardi di euro. Solo i “paperoni” della Penisola, circa 611 mila famiglie, infatti, possiedono beni per 896 miliardi di euro. Ma allora qual è la situazione finanziaria reale dell’Italia? Lo chiediamo a Benedetto Gui, docente di Economia presso l’Università di Padova.
Professore, i “super-ricchi” salveranno l’Italia dalla bancarotta?
«Di ricchezza privata in Italia ce n’è tanta: una stima recente parla di 11mila miliardi di euro complessivi, quindi pari a sei volte il debito pubblico, che è di quasi 1.900 miliardi. Il nostro debito pubblico è detenuto per metà circa da investitori internazionali, ma ci sono molti soggetti nazionali che hanno titoli esteri per un ammontare equivalente, se non addirittura superiore. Questo significa che non c’è mancanza di ricchezza nel nostro Paese. È come una famiglia nella quale il padre si è indebitato con i figli, ma questi ultimi la ricchezza ce l’hanno, quindi si può dire che nel complesso la situazione patrimoniale della famiglia, dunque per noi dell’Italia, non è compromessa. Resta comunque il fatto che l’andamento dei tassi d’interesse che il Tesoro deve pagare è fortemente influenzato dai mercati internazionali».
Eppure si parla ancora di un “rischio” Italia. Quanto c’è di vero?
«Un indicatore della situazione della finanza pubblica di un Paese sono appunto i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico. In questo momento, ad esempio, quelli della Grecia sono stratosferici (15 per cento al di sopra di quelli della Germania, che è giudicata affidabile) perché il rischio di insolvenza è molto elevato; dunque si accetta di tenere quei titoli solo se il rendimento è molto alto. In questo momento sono maggiormente in difficoltà, oltre alla Grecia, l’Irlanda (oltre l’8% sopra i tassi tedeschi) e il Portogallo (oltre il 6%)».
Poi ci sono Spagna e Italia…
«Esatto, ma per l’Italia i tassi di interesse sono attorno ai due punti percentuali più alti di quelli tedeschi. Il che significa che i mercati giudicano l’Italia un Paese da tenere sotto controllo, ma non portatore di un serio rischio immediato. Il vero problema è che queste prospettive potrebbero cambiare anche rapidamente. In termini quantitativi assoluti, il debito pubblico italiano è molto più grande degli altri paesi dell’area euro che sono in difficoltà. Ma mentre l’insolvenza della Grecia avrebbe un impatto importante sull’intero sistema finanziario, quella dell’Italia avrebbe un effetto devastante: il nostro è il terzo debito pubblico mondiale… Se i mercati si convincessero che la politica italiana è inaffidabile, che nessuno è in grado di tenere una linea di rigore nei conti pubblici, le cose potrebbero mettersi male. Ecco perché è importante dare segnali forti di affidabilità».
Ad esempio?
«Approvando presto la manovra economica. Se dobbiamo dare un taglio alle pensioni, per esempio, visto che ci sono settori che meritano di essere limati, sarebbe positivo farlo in fretta, dicendo: abbiamo preso decisioni che influenzeranno la solvibilità dell’Italia non per i prossimi due anni, ma per venti. Un precedente positivo fu la famosa “tassa per l’Europa”, creata per consentire all’Italia di entrare nell’euro. Non piacque ai contribuenti, ma ebbe il grande risultato di cambiare le aspettative dei mercati finanziari sul nostro Paese. L’Italia venne considerata affidabile, i tassi diminuirono e il debito pubblico si alleggerì. Ci fu un circolo virtuoso. Viceversa, quando come in questo momento ci sono forti pressioni da parte delle istituzioni europee affinché l’Italia approvi la manovra, se questo non avviene, ne risentono sia i conti di oggi che quelli di domani, perché aumentano i tassi di interesse».
Le agenzie di rating hanno messo sotto osservazione l’Italia: sono affidabili o possono contribuire ad alimentare le speculazioni?
«Le agenzie di rating non sono sempre attendibili. Dopo la crisi ci fu un crollo della loro reputazione, perché avevano mantenuto fino all’ultimo momento buone valutazioni delle banche poi fallite. Purtroppo, non esistono oggi delle vere alternative alle agenzie di rating e affermazioni contrarie da parte delle istituzioni nazionali non verrebbero ritenute credibili. L’unico modo per essere credibili è di adottare decisioni visibili. Certo, il rischio speculazione esiste. Si dice che i mercati sono “nervosi”: significa che se ci sono fattori che giustificano il pessimismo e qualche grande investitore li cavalca, gli altri – o perché ci credono o perché vedono il prezzo dei titoli che va giù mentre i tassi crescono – li seguono, rafforzando la caduta. A volte ho l’impressione che se qualche soggetto forte della finanza internazionale decidesse di far crollare ad esempio la Grecia, facendo partire volumi di vendite molto alti, potrebbe destabilizzare definitivamente il traballante equilibrio che si sta trascinando tra un vertice europeo e l’altro».
Uno strumento per fare cassa è la tassazione. Come scegliere tra altri redditi e rendite?
«L’Italia ha una tassazione molto bassa sulle rendite finanziarie: pari al 12,5 per cento. Ci sarebbe uno spazio per un aumento, senza provocare grandi fughe di capitali, che è il grande rischio che bisogna tener sempre presente in questi casi. Il problema, non solo italiano, è che i capitali possono essere spostati rapidamente per sottrarli alla tassazione. Basta una telefonata o un’operazione su Internet. Per i lavoratori è diverso: non ci si può sottrarre alla tassazione, tranne che emigrando. Ecco perché, di fatto, si tassano di più i redditi da lavoro. Per cambiare le cose l’Italia, da sola, può fare poco. Un’alternativa è la tassazione sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta “Tobin tax”: se supportata da un numero elevato di Paesi, permetterebbe di raccogliere introiti fiscali importanti dalla finanza e non dal lavoro. Se prima un’ipotesi del genere era impossibile, adesso non lo è più, anche se ci sono molte difficoltà. C’è un sorprendente ritorno di interesse e mi sembra uno dei campi su cui lavorare per ridurre la tassazione sui redditi dei lavoratori e delle imprese. Oggi poi c’è anche la novità che nella manovra annunciata da Tremonti potrebbe entrare la reintroduzione di una piccola imposta di bollo sulle transazioni finanziarie. Spero che possa rivelarsi tecnicamente realizzabile a costi contenuti».