L’Italia sono anch’io

Continua la campagna per la cittadinanza ai bambini nati in Italia da stranieri regolari: con una conferenza alla Camera i promotori chiedono al Parlamento di discutere la proposta di legge
Campagna per il diritto di cittadinanza

“L’Italia sono anch’io”, così s’intitola la campagna nazionale promossa da 19 organizzazioni della società civile, fra cui le Acli, l’Arci, Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), la Caritas italiana, la Cgil, la Fcei (Federazione Chiese evangeliche in Italia), la Fondazione Migrantes, Libera e l’editore Carlo Feltrinelli. Un vero spaccato trasversale della nostra società che mira a realizzare una forma nuova del diritto di cittadinanza. Si auspica, infatti, che i bambini nati in Italia da genitori stranieri regolari possano essere cittadini italiani. Non solo; si vorrebbe permettere ai lavoratori regolarmente presenti in Italia da cinque anni di espletare il diritto elettorale amministrativo.
 
La raccolta delle firme, realizzata in un centinaio di città italiane e conclusasi nel febbraio 2012, ha ampiamente superato il tetto di 50 mila previsto per la proposta di legge di iniziativa popolare. I numeri, infatti, parlano chiaro: 109.268 le firme raccolte per la proposta di legge sulla cittadinanza; 106.329 per la proposta di legge sul diritto di voto. Record in Lombardia (oltre 18 mila firme), Emilia Romagna (15 mila) e Piemonte (11 mila).  
 
Chi nasce in Italia è italiano, dunque: questo il punto di arrivo, si spera, di una delle proposte più dibattute nell’Italia che cambia a cento cinquant’anni dalla sua unità. Nel nostro Paese, a fronte della coscienza che i processi migratori che hanno trasformato l’Europa, e che non sembrano cessare o diminuire, necessitano di un riconoscimento realistico sul territorio, esiste una resistenza spesso palpabile nella vita quotidiana, legata a paure per un futuro che la crisi rende ancora più incerto. Ma non sono solo associazioni assistenziali a chiedere un rinnovamento consono ai tempi e all’andamento, inarrestabile pare, della storia. Il nostro presidente Giorgio Napolitano si è espresso con chiarezza, sia pure senza interferenze istituzionali, a favore di un diritto alla cittadinanza che segni un cambiamento di paradigma di riferimento: da ius sanguinis (si acquista la cittadinanza dei genitori) si passerebbe allo ius soli (si è cittadini del Paese dove si nasce). 

Nei giorni scorsi, nell’auletta dei gruppi della Camera a via Campo Marzio, si è tenuta una conferenza per tenere viva l’attenzione sul problema e sensibilizzare proprio il Parlamento alla questione, che resta una delle 48 proposte di legge ancora nel cassetto. Sono intervenuti il presidente Gianfranco Fini, il ministro della Cooperazione internazionale, Andrea Riccardi, e il presidente della regione Puglia Nichi Vendola, insieme al presidente dell’Anci, Graziano Del Rio. Il coro è stato unanime: un invito alle due Camere di prendere in esame e, possibilmente, approvare, entro la fine della legislatura in corso, i due disegni di legge nati dall’iniziativa popolare. Un timido passo è stato già fatto con la messa a calendario della discussione, prevista per la fine di giugno.
 
Il problema, tuttavia, come ha fatto rilevare proprio il presidente della Camera è quello di «colmare il ritardo culturale della nostra società». Il fatto che l’attuale legislazione sulla cittadinanza sia regolata da una legge del 1992, ha fatto notare Fini, spiega come non ci si renda conto quanto il nostro Paese sia cambiato in questi vent’anni. «È necessario superare la concezione dell’immigrazione come fenomeno negativo e cominciare a considerarla una risorsa», ha sottolineato Fini.
 
Di fronte ad altri modelli di integrazione che si sono tentati nel nostro continente – quello francese troppo invasivo dell’identità culturale degli immigrati e quello inglese di multiculturalismo estremo – c’è chi auspica un modello italiano che possa porsi come terza via, un esempio sostenibile per altre parti del vecchio continente, che si trova ad affrontare il problema migrazione in modo diversificato, ma ugualmente urgente. Graziano Del Rio, fra l’altro, ha fatto notare che nel giro di un ventennio un quinto del totale della popolazione italiana sarà di origine estera.
 
Quello che probabilmente è necessario in ambito istituzionale, come pure a livello di base, è sempre lo stesso punto: porsi di fronte ai processi storici nella giusta prospettiva, non come un problema, ma come un’opportunità. Nichi Vendola lo ha sottolineato, affermando che «gli immigrati sono un pezzo della nostra ricchezza, non solo economica, ma anche culturale». Ed è proprio su questo tipo di ricchezza che bisogna puntare in momenti di crisi perché i diritti – ha affermato Del Rio – sono un grande investimento.
 
In questi giorni, fra l’altro, foto e riprese televisive hanno messo in evidenza che anche le calamità naturali – il terremoto che sta scuotendo Emilia e Romagna – possono essere agenti integrativi. Non può essere sfuggita, nelle file in attesa di ricevere i pasti nelle tendopoli, la presenza di sikh, riconoscibili dai turbanti, o di donne musulmane o pakistane. Oppure, colpiva vedere come i musulmani, nonostante disagi e perdita di case e proprietà, non perdevano l’occasione per la preghiera quotidiana e, in particolare, quella del venerdì, spesso in moschee, per così dire, ricavate in tende di emergenza. Sono momenti che fanno riflettere non solo per il dolore che procurano, l’ansia che generano, i danni che creano, ma anche per i ponti che aiutano a costruire.
 
Se storia e natura ci aiutano a muovere verso l’integrazione, diritto e legge non possono non assecondare questi processi.
 

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