L’Italia s’è desta?

C'è bisogno di una festa nazionale per celebrare l'unità della nazione? E davvero ha senso imparare a scuola l'inno di Mameli? Una riflessione
frecce tricolori

Fa discutere la doppia proposta uscita di recente di istituire una nuova festa nazionale – il 17 marzo per celebrare l’Unità d’Italia – e di far studiare nelle scuole l’Inno di Mameli. La prima impressione è che l’Italia rimanga il Paese delle feste e dei “ponti”, i più lunghi possibili per poter “godere la vita”. È così che ci vedono spesso all’estero. Da molto tempo. Almeno fin dal Settecento, quando i facoltosi stranieri venivano in Italia per il Grand Tour, Goethe in testa, e rimanevano stupiti del gran numero di feste e dell’allegria (ma anche della poca onestà) degli Italiani. Ignoravano che le feste erano anche un modo per dimenticare – e far dimenticare – una povertà ancestrale assai diffusa.

Dunque, ha ancora senso indire una nuova festa civile? Se si pensa al 2 giugno – proclamazione della Repubblica – e al 4 novembre – che celebra le forze armate e la vittoria (?) nella Prima guerra mondiale – si resta perplessi. Queste feste ormai sono diventate occasioni per sfilate miliari, sfoggio di un bellicismo d’altri tempi e commemorazioni nostalgiche del tempo che fu. Magari, a Roma, ci si va per lo spettacolo delle “fiamme tricolori” (nella foto)…

Quanto all’Inno di Mameli da studiare nelle scuole – oltre che da cantare alle partite della Nazionale di calcio e in altre occasioni, anche conviviali – c’è da rimanere pure qui perplessi. Ma non lo dovrebbero spiegare a scuola, i professori di storia? Pure, la proposta, a ben pensarci, non suona così strana, o, come si diceva un tempo, peregrina. L’Italia è cambiata. La fuga dal “valore dei valori” – ci si perdoni il bisticcio – è sotto l’occhio di tutti, e sulle cause si può discutere all’infinito. Ma il fatto c’è, e l’esempio, purtroppo per le nuove generazioni, è venuto dall’alto, dagli adulti. Queste nuove generazioni ormai comprendono i figli degli immigrati, nati da noi, che parlano un italiano con inflessioni dialettali riconoscibili sia a Roma che in Sicilia, in Veneto come in Piemonte. Essi non conoscono la nostra storia, sembrano nati in un Paese che non ha radici, che non è “nazione”, ossia un popolo che ha una civiltà che li unifica. Eppure, questo c’è stato, ben prima dell’unità politica. Al di là delle “piccole patrie”, come è ancora l’Italia, e dei regionalismi esasperati.

L’idea perciò di una festa nazionale che ricordi l’Unità, raggiunta a prezzo di sacrifici e di sangue, non è una stonatura, ma una necessità. E va considerata ben prima delle altre due feste, che sono tappe di questa unità voluta e mantenuta.
Ma ad una condizione. Che finalmente in Italia si abbia il coraggio di dire la verità storica.
Ci sono ancora troppi tabù, e chiunque, con un poco di istruzione legga un testo di storia ad uso degli studenti, si accorgerà della sottile ideologia che vi è nascosta e che distorce sovente la verità. Alcuni esempi: la Resistenza vista quasi esclusivamente come opera delle sinistre, l’unità nazionale raggiunta con l’ostilità massonica alla Chiesa, il comportamento discutibile di Casa Savoia… Potremmo continuare.

Certo, non è facile cercare di dire la verità. Eppure, chi ha avuto l’idea della festa, dovrebbe prima di tutto puntare ad un cambio di mentalità storica, per non rischiare l’ennesima celebrazione retorica.

Quanto poi allo studio dell’Inno di Mameli – mazziniano e repubblicano –, se non è inserito in un corso di storia che lo collochi nella sua giusta posizione, diventerà uno dei consueti optional dei professori. I quali dovrebbero essere i primi ad affrontare con coraggiosa obiettività la loro interpretazione della storia.

Alla fine, sembra necessario un cambio di mentalità. Per ritrovare le proprie radici. In modo che quello che un tempo si chiamava il Belpaese ritrovi sé stesso. L’Italia si deve veramente destare dal sonno della mediocrità. Forse queste proposte  non arrivano inutilmente.

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