L’Italia reale ci dà fiducia
Carlo Verdone sta per uscire nelle sale con un suo nuovo film – Io, loro e Lara – nel quale interpreta un prete che, dopo tanti anni, torna dalla sua lontana missione: prova sconcerto e delusione, trovando non poche difficoltà a riconoscere la sua amata terra, al punto da desiderare di ritornare subito nella sua patria adottiva.
Forse anche noi ci sentiamo un po’ come il missionario rappresentato dal comico romano: anche noi non riconosciamo spesso la nostra bella e amata Italia. Che Paese è quello che scorre nei nostri telegiornali: la Gomorradelle mafie, delle ndranghete e delle camorre; la Sodoma degli scandali e delle perversioni familiari; la Babele non tanto degli idiomi dell’immigrazione quanto delle infinite battaglie politiche e culturali tra sordi?
Qualche voce, è vero, parla fuori dal coro. Cito due colleghi, tra gli altri. Marco Tarquinio, nuovo direttore dell’Avvenire, che vuole «con tutta la possibile passione… dar conto del bene che c’è, che accade in ogni dove, che costruisce un altro futuro» (25 novembre). Ernesto Galli Della Loggia, invece, sul Corriere scrive che la nostra «è una società che per la sua grandissima maggioranza ragiona e sa mantenere la testa a posto. È un Paese capace di giudicare, che preferisce qualche proposta concreta ai torrenti di parole» (27 novembre).
Ci avviamo rapidamente alla fine del 2009, che qualcuno definisce annus horribilis. Per certi versi lo è stato, indubbiamente, soprattutto per la prima grave crisi economica globalizzata che ancora non è finita e che ci lascia in eredità per il 2010 una valanga di nuovi disoccupati. Senza considerare le guerre vecchie e nuove, le catastrofi naturali, le conseguenze della follia distruttiva dell’uomo sull’ambiente, la decadenza del senso della vita, di ogni vita.
Ma è anche vero che se la crisi genera in un primo momento solo sconcerto e smarrimento, poi diventa coscienza di quel che non va bene, e infine muta in creatività, per trovare nuove soluzioni. Ci sembra che anche questa volta la nostra società stia vivendo questo triplice processo.
Anche l’Italia, la nostra bella Italia. E allora ci si chiede se la rappresentazione che oggi ci viene data e noi stessi diamo del nostro Paese sia corrispondente alla realtà, o piuttosto non sia frutto degli interessi di taluni, o semplicemente di un diffuso e irrazionale pessimismo. Se guardiamo all’esercito di buona volontà della società civile, non possiamo non rallegrarci: quella che fa volontariato, quella che accoglie gli immigrati, quella che invia miliardi di euro verso i Paesi che ne hanno bisogno, di gran lunga più dello stesso Stato. L’Italia della famiglia che, fatti i conti in tasca, decide di rivedere consumi e stili di vita, puntando a quel che è essenziale. Quella delle piccole o medie imprese che si re-inventa, ritrovandosi un po’ più simile agli statunitensi, campioni del saper innovare. Quella che si mette assieme per i “gruppi di acquisto solidale” o per gli asili di condominio. Quella della giustizia sociale e della sussidiarietà. Quella dei gruppi e movimenti che si uniscono per far qualcosa di concreto e di utile. L’Italia che crea “luoghi della fiducia”, come dice il fisico Ugo Amaldi.
Il futuro dell’Italia, non siamo ingenui, è in mano a una classe politica che troppo spesso perpetua sé stessa non ascoltando a sufficienza il Paese reale. Ora è tempo che esso prenda coraggio, che faccia sentire ad ogni livello la sua voglia di futuro attraverso la ricchezza delle sue proposte, magari incominciando dalla propria città. Deve riuscire a prendere in mano il futuro, nell’umiltà e col coraggio che non sono certo assenti dal suo patrimonio. Serve profezia – e in questo la Chiesa può dire tanto, senza paura –, cioè la capacità di rivelare il futuro “facendo” il presente.