L’Italia che verrà

“Meno male che l’11 settembre è passato e Johannesburg è lontana”, confida con un sospiro di sollievo un aitante signore prima di passare in rassegna l’agenda, traboccante di impegni, nella sua trasferta romana. Insomma, basta con gli anniversari, sembra dire. Ormai è successo, andiamo avanti. E anche tutto quel parlare del vertice sudafricano e di come va il mondo. Che cosa posso fare io se un miliardo di persone non ha acqua potabile da bere, se un miliardo e mezzo di miei simili soffre a causa della siccità, se ci sono 800 milioni di affamati, se ogni anno tre milioni di persone muoiono a causa di malattie legate all’inquinamento, se il 15 per cento della superficie terrestre è degradato? E perché terrorizzano la mia giornata già piena di angustie, costringendomi a pensare che nel 2025 gli assetati del mondo saranno 3,5 miliardi? Conoscete anche voi gente spaventata dal futuro, che si è adattata – forse nemmeno per scelta – a vivere in un appiattito presente senza passato e senza traiettorie future. Mentre si teme il cambiamento, il cambiamento è in corso. Non conosciamo il futuro dell’Italia, eppure il paese sta mutando. Politici ed economisti sono catturati dallo sforzo di analizzare e gestire l’immediato, e così nessuno dice con chiarezza dove stiamo andando. Eppure, i demografi fanno presente che la struttura della nostra società sta cambiando rapidamente. Cosa vuol dire? Che la popolazione italiana tra i 20 e i 60 anni, cioè la forza lavoro del paese, si ridurrà nei prossimi 20 anni da 32 a 27,5 milioni. E non è il dato più eclatante. Prendiamo in considerazione il settore della popolazione tra i 20 e i 40 anni, quello su cui si gioca lo sviluppo del paese. È infatti la fascia più attiva, innovativa, dotata delle conoscenze tecniche più recenti, pronta più di ogni altra alla mobilità e disponibile all’adattamento. Ebbene, questi 20- 40enni sono 17 milioni. Tra 20 anni – supponendo che nella penisola non entri nessuno – saranno ridotti a 11 milioni, una contrazione che sfiora il 40 per cento. Il problema della scarsa natalità non costituisce certo una novità. Ma viviamo con una logica fatalistica il fatto che l’Europa sia l’area geografica che sta invecchiando di più al mondo e che nel Vecchio (appunto!) Continente il Bel Paese è in testa alla graduatoria. Dai 60 ai 100 anni, scegliete voi il limite di età, troverete sempre che la percentuale di anziani in rapporto alla popolazione è la più alta di tutta Europa e cresce più rapidamente che altrove. La questione, come si capisce, non riguarda solo i demografi. Investe la vita e il livello di benessere di tutte le famiglie italiane. Già adesso, non tra 20 anni. Chi contribuirà a pagare le pensioni di tutti i nostri babbi e nonni? Si stenta a rispondere. E, per di più, si continua a discutere sull’opportunità o meno di far entrare lavoratori dall’estero. In Italia c’è un immigrato ogni 38 italiani. “Questo non dovrebbe destare allarme sociale, ma non è così – avverte Maurizio Ambrosini, docente di sociologia del lavoro all’università di Genova -. La maggioranza degli immigrati irregolari non sono musulmani e uomini, ma donne, quelle che spingono le carrozzine con i nostri bambini e tengono sottobraccio gli anziani”. Aggiunge: “Gli immigrati sono i soli disposti ad accollarsi le mansioni più disagiate, precarie e socialmente penalizzanti, definite in inglese come “lavori delle tre D”: dirty, dangerous, demanding (sporchi, pericolosi, pesanti)”. Sentenziano economisti, industriali ed esperti sociali: “Abbiamo un estremo bisogno di immigrati”. Ma non si vuole riconoscerlo. Non è questione di destra, di centro o di sinistra, di stato o di mercato, di visione solidaristica o liberista nella conduzione di un paese. Il dato di fatto a cui ci riportano gli studiosi è che l’Italia ha “un fortissimo deficit di risorse umane”, come si dice in gergo, e “c’è un bisogno crescente di immigrati”. Analizzando perciò da un punto di vista squisitamente tecnico (non politico, né etico) la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, se ne ricava che in prospettiva è controproducente. Il fatto di legare il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, generalmente di breve durata, rivela l’intenzione di puntare su un’immigrazione a rapida rotazione. Ci saranno perciò continui arrivi e continue partenze. Gli immigrati non avranno né tempo, né intenzione di apprendere la nostra lingua, di integrarsi in un paese che non li accoglie, di far crescere i propri figli. Eppure, sappiamo che l’immigrato è un grande risparmiatore e, se ha la famiglia nel paese che lo ospita, un forte investitore. I benefici si vedono soprattutto nel lungo periodo. Il contributo dell’immigrazione ad un paese non va infatti misurato solo da quanto l’immigrato apporta, ma dai contributi che le generazioni successive daranno al paese. In Europa spira un vento che va chiudendo le porte agli immigrati. Dalla Spagna all’Olanda, dal Portogallo all’Inghilterra, alla Danimarca sono stati presi provvedimenti restrittivi rispetto alle disposizioni precedenti. Ma l’Italia ha un deficit di popolazione decisamente superiore a quelle nazioni. Il Bel Paese dei prossimi venti anni avrà un volto anziano e un bisogno crescente d’immigrazione. “E questo va detto alla collettività e va preparata ad avere immigrati, ad avere più immigrati”, ribadisce il noto demografo Massimo Livi Bacci. Quanti? “Dipenderà dalle decisioni politiche e dalla scelta di avere una crescita di un certo tipo o di un altro tipo. Ma certamente avremo immigrazione crescente “. E cosa fare in un paese in preda alla schizofrenia? “C’è una sola strada: prepararci ad accogliere gli immigrati, a favorire l’ integrazione, a renderli più utili a loro stessi e alla comunità in cui si vanno ad inserire”. Rendiamo obbligatorio il servizio civile I pragmatici sono i più numerosi e vogliono un sistema di sicurezza sociale che non debba garantire tutto a tutti. Seguono poi gli idealisti, che hanno una visione universalistica del welfare, capace cioè di coprire le diverse gamme dei bisogni. Infine, gli individualisti, che prediligono un sistema di sicurezza ai minimi livelli, con meno tasse e che inviti ognuno ad arrangiarsi per proprio conto. È quanto emerge da un’indagine condotta dall’Iref, l’istituto di ricerca delle Acli, i cui risultati sono stati presentati all’annuale convegno di studi dell’associazione di lavoratori cristiani, svoltosi nella tradizionale cornice fiorentina di Vallombrosa all’inizio di settembre. Le spinte egoistiche registrate dallo studio hanno fatto da cornice al tema generale di riflessione “Reinventare il welfare per l’Italia che cambia”. Ne sono emerse proposte, che, come ha precisato Luigi Bobba, presidente delle Acli, “costituiscono un pungolo per il governo e una spinta critica per l’opposizione “. Eccole in sintesi: introdurre, nell’attuale sistema fiscale, il quoziente famigliare, che tiene conte del reddito ma anche del numero dei componenti delle famiglie; istituire, a carico dello stato, un fondo specifico a sostegno delle famiglie con anziani a rischio di non autosufficienza; riconoscere i diritti individuali di formazione nell’ambito di una flessibilità sostenibile; sviluppare un sistema previdenziale misto, con quello integrativo affiancato al pubblico. In riferimento alle nuove generazioni, è stata chiesta la riorganizzazione dei servizi di cura per i bambini, indispensabile per conciliare lavoro e impegno in famiglia. Ma per un nuovo welfare, le Acli hanno proposto uno strumento nuovo: un servizio civile nazionale obbligatorio. “Deve svolgere – ha illustrato Bobba – una funzione soprattutto educativa, di identificazione con il proprio paese in questo tempo di globalizzazione, dove riscoprire il valore del servizio. È una cultura che si costruisce rimotivando all’azione volontaria, utile alla coesione sociale del paese”.

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