L’Italia bocciata in matematica
È un periodo di “pagelle”: l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha pubblicato i risultati dell’indagine PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), realizzata in 24 nazioni su un campione di 157 mila persone di età compresa tra i 16 e i 65 anni. L’ambizioso obiettivo, in un contesto che vede macroscopiche trasformazioni provocate dalla rivoluzione tecnologica, è quello di misurare i livelli di alcune competenze ritenute funzionali ad un proficuo rapporto con il mondo del lavoro.
Purtroppo la “pagella” del nostro Paese appare allarmante, soprattutto per quanto riguarda le competenze linguistiche e matematiche: all’interno di una scala 0-500, il nostro punteggio medio è pari a 250 per le competenze alfabetiche e a 247 per quelle matematiche. La media Ocse, invece, è rispettivamente di 273 e 269.
Un nostro punto debole appare, come sempre, la capacità di lettura, che si attesta a 241, contro i 273 Ocse. Il confronto ci pone ad una distanza davvero eccessiva da chi, come il Giappone (296), sta in pole-position. È una conferma di quanto sostiene Tullio De Mauro, noto linguista, per il quale un quarto degli italiani sono “analfabeti funzionali”, incapaci di “leggere” e di interpretare adeguatamente un articolo di giornale o la pagina di un libro.
Ai dati preoccupanti dell’indagine PIAAC dobbiamo accostare quelli sulla nostra dispersione scolastica nel triennio 2010-2012, pubblicati recentemente da un’altra ricerca Ocse (Education at a glance): gli abbandoni scolastici dei 15-19enni si attestano intorno al 18 per cento. In quest’ambito, una specifica emergenza è quella rappresentata dai giovani NEET (Not in Education, Employement or Training: 16-29enni che non lavorano, non studiano, non affrontano nessun tipo di formazione professionale), le cui competenze globali risultano ancora più basse di quelle dei loro coetanei impegnati a scuola o nel lavoro. Questa “emergenza giovani” è stata oggetto, nei giorni scorsi, di una nota congiunta da parte dei ministri Maria Chiara Carrozza (Istruzione e Università) ed Enrico Giovannini (Lavoro e Politiche sociali): «I dati sono allarmanti e impongono un’inversione di marcia (…) l’abbandono precoce dei percorsi di formazione rischia di pregiudicare il loro futuro, i dati Ocse lo dicono chiaramente». Di fronte a queste emergenze l’attuale governo ha già preso alcune contromisure, che sembrerebbero in controtendenza rispetto alle sorde politiche scolastiche e culturali degli ultimi decenni: i decreti Lavoro e Scuola (giugno-settembre) impegnano per il triennio 2013-2015 una somma di 560 milioni di euro e istituiscono una “commissione di esperti” con il compito di definire iniziative e obiettivi a brevissimo, breve e medio termine, nella prospettiva voluta dall’Europa con il «Piano Garanzia Giovani» per l’occupazione giovanile.
È chiaro che di fronte alla problematica complessiva che stiamo considerando non sono ammessi atteggiamenti consolatori, giustificati dalla costatazione che, pur trovandoci in coda al gruppo, siamo relativamente vicini a nazioni come la Spagna e la Francia.
Bisogna invece rimboccarci le maniche, sapendo che le risorse economiche per la scuola e la cultura in genere sono certamente utili, ma non sufficienti.
Rimedi possibili?
Sicuramente va posto l’accento su una formazione degli insegnanti che riguardi la competenza nella didattica delle discipline ma, ancor prima e soprattutto, le competenze relazionali, interpersonali e sociali. Sono queste, infatti – come dimostrano molti studi –, che creano negli studenti la motivazione, la spinta ad imparare e a impegnarsi. Sono queste che sollecitano gli insegnanti stessi a collaborare insieme, a mettere in atto una didattica interdisciplinare e cooperativa (cooperative-learning), a superare la frequente dicotomia scuola-vita (che gli studenti soffrono), a promuovere il senso dell’impegno e della responsabilità, valori che non si insegnano a parole, ma con la testimonianza viva e con l’evidente intenzionalità a migliorare, a partire proprio da se stessi. Serve poi un recupero di protagonismo creativo, da parte delle varie istituzioni, ma anche dei singoli cittadini, in un contesto culturale troppo spesso anestetizzato dall’onnipotenza dei modelli “esteriore”-materialistico e tecnologico-massmediale, che in molti casi inibiscono il mondo “interiore”, placano la curiosità e innalzano anche a scuola il tasso di noia, di depressione, di fallimento.
Un’ultima considerazione, o meglio, un dubbio: queste importanti indagini studiano, in particolare, le competenze “funzionali” al mondo del lavoro. Viene da chiedersi: non si corre il rischio di trascurare – o di non dare la dovuta importanza – a certe dimensioni, forse meno “funzionali”, che riguardano il mondo dei valori, dei sentimenti, dell’arte? Sono aspetti difficilmente “misurabili”, che sfuggono facilmente alla possibilità di essere oggetto di ricerca e valutazione secondo i parametri prevalenti. Anche questi, tuttavia, costituiscono la base culturale di una nazione.