L’Italia ha bisogno di credito
Italia declassata. È di qualche giorno fa la notizia che l’agenzia canadese Dbrs, la più piccola delle agenzie di rating internazionale, ha confermato la retrocessione già sancita dai tre colossi del settore – Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch – dalla classe di merito alta, quella delle A, a quella bassa, delle B. Incertezza sul versante politico e persistente debolezza del sistema bancario i fattori principali che hanno influito sulla valutazione della diminuita capacità di credito italiano.
Ma pure Italia promossa. Secondo uno studio presentato ieri a Roma alla Camera dei deputati, “Volontari e attività volontarie in Italia. Antecedenti, impatti, esplorazioni” (Bologna, Il Mulino, 2016), il nostro Paese ha una ricchezza tutta sua: il mondo del volontariato, oltre 6 milioni di persone (12,6% della popolazione) che si impegnano gratuitamente per gli altri o per il bene comune.
Sette i profili di quanti operano all’interno del volontariato organizzato, tracciati dalla ricerca curata da Riccardo Guidi, Ksenija Fonović e Tania Cappadozzi, che presenta analisi e risultati inediti sulla base dei dati Istat 2013 rilevati applicando, per la prima volta in Italia, lo standard mondiale ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) per la rilevazione del volontariato.
Ci sono i “fedelissimi dell’assistenza” (i più numerosi, un milione e 228 mila cittadini, pari al 29,6% del totale di volontari organizzati), cioè quelli che dedicano al volontariato mezza giornata alla settimana nel campo dei servizi sociali; i “pionieri”, (il 13,6%, 561 mila persone) in genere laici ed istruiti per lo più dediti all’ambiente e alla collettività. Troviamo le “educatrici di ispirazione religiosa”, pari a un milione di persone (il 25%), impegnate nelle attività educative e nella catechesi; gli “investitori in cultura” dediti a iniziative culturali e ricreative (il 10,3%, 427 mila persone); i “volontari laici dello sport”, cioè allenatori e dirigenti di associazioni sportive dilettantistiche (l’8,9%, 368 mila persone); i “donatori di sangue” che si mettono a disposizione una volta al mese (l’8%, 333 mila persone). E non manca un profilo originale: gli “stakanovisti della rappresentanza”, ossia dirigenti e organizzatori di associazioni che si occupano di politica, attività sindacale e tutela dei diritti (il 4,6%, 190 mila persone dei quali un terzo svolge questo impegno a tempo pieno).
Ma la ricerca non si ferma qui e traccia quattro profili del volontariato individuale e spontaneo. “Quelli che… danno una mano” (il gruppo più numeroso, pari al 34,2%, ovvero 852mila persone): sono persone che offrono aiuto in casa o per pratiche burocratiche; “quelle che… senza come si farebbe” (il 28,4%, 707 mila persone), che offrono assistenza qualificata a persone in difficoltà: è una relazione di aiuto duratura, un vero e proprio servizio complementare all’autogestione familiare. L’attività di cura è svolta in prevalenza da donne: la maggior parte (69,9%) lo fa per almeno 10 ore al mese, una su cinque (20,5%) per più di 40 ore al mese.
Ci sono poi “quelli che… scelgono di fare da soli” e “quelli che… per donare vanno diritti all’ospedale”.
In generale la ricerca dice che i nostri volontari sono «colti, felici e fiduciosi nel prossimo». A far sì che una persona scelga di fare volontariato, infatti, sarebbero le competenze socio-culturali, così come l’identità religiosa, che risulta l’incentivo più forte; chi vi si dedica ha una migliore qualità della vita ed una maggiore capacità di socializzazione e di partecipazione alla vita del Paese.
Un contributo importante, questo volume, che esce, forse non a caso, in un momento in cui sono in via di definizione, da parte del Governo, i decreti attuativi della riforma del Terzo settore.