L’Istria di Tomizza

Viaggio a Materada. Alla ricerca di un autore che non si è mai rassegnato ai confini che dividono. «Scrivo per diventare più uomo…»
Fulvio Tomizza

Umago è il comune più occidentale della Croazia, affacciato sull’Adriatico.  Humagum al tempo dell’antica Roma, fu città autonoma durante il Medioevo, per essere in seguito annessa nel 1358 alla Repubblica di Venezia, sotto la quale rimase per cinque secoli fino alla sua caduta nel 1797. Per due volte inglobata nell’Impero austriaco, fu centro irredentista italiano nell’Istria sottoposta al dominio asburgico; e quando nel 1918 la penisola venne annessa al Regno d’Italia, divenne parte della provincia italiana di Pola, conoscendo sviluppo e abbellimento notevoli durante il periodo fascista. Dopo le rovine della Seconda guerra mondiale, una volta incorporata nella Jugoslavia, la città si spopolava in seguito all’esodo della stragrande maggioranza dei suoi abitanti di origine italiana.

Oggi Umago è un rinomato centro turistico con spiagge incantevoli e un affascinante centro storico dalle case in stile veneziano e con stratificazioni di secoli, dal Medioevo al Barocco. Ma è il suo verde entroterra collinare ricco di centri minori quello che ora m’interessa. E qui troviamo Giurizzani di Materada, la frazione dove nacque nel 1935 Fulvio Tomizza, che legò il suo esordio come scrittore al romanzo corale, lirico e contadino intititolato appunto Materada. Anima inquieta di esule, diviso tra la natia Istria e la città di adozione, Trieste, dove rimase fino alla morte nel 1999, Tomizza seppe fare del proprio sofferto “destino di frontiera”, della sua duplice anima di italiano e slavo, di uomo della terra e di città, il trampolino per spaziare oltre le angustie di confine, oltre i nazionalismi, i rancori, le incomunicabilità tra mondi diversi, per dire una parola di comprensione e di conciliazione: e questo prima ancora che si parlasse di Europa unita.

L’Istria fu costantemente il suo punto di riferimento, la sua stella polare, anche se non era più la stessa dei giovani anni. Dopo un inverno triestino trascorso a documentarsi in vista di un nuovo libro, da maggio a ottobre ritornava in quella terra che gli aveva ispirato i primi romanzi rivelatori del suo talento di scrittore mitteleuropeo. Era per riprendere familiarità con la natura, per impregnarsi degli umori e delle voci della sua gente contadina: alternando alle fatiche dell’orto quelle della composizione letteraria; scambiando fraterni colloqui in dialetto con gli italiani rimasti sul posto, ma anche con i nipoti dei nuovi abitanti slavi. Suo rifugio era il casolare che aveva ristrutturato nella campagna di Materada. E lì, in una stanzetta più simile alla cella di un convento, estraniato da tutto, passava ore al suo tavolo di lavoro: qualunque fosse l’argomento – un episodio che rimandava agli anni del doloroso esodo oppure una vicenda risalente ad un più remoto passato ma da lui vivificata e riconsegnata all’oggi – vi si dedicava con la stessa sacralità di un prete che s’accosta all’altare.

«Quando vado in Istria – soleva dire – mi sento nel mio habitat, nella condizione fisica, sentimentale, ideologica ideale: sono una persona di nuovo integra, innocente. Lì trovo non soltanto la pace della campagna, ma soprattutto una purezza di spirito, una pulizia morale. Lontano dagli interessi, dagli inquinamenti, dai giochi letterari, dal do ut des che regna nel mondo civile, riacquisto anche una certa umiltà che è connaturata con quei luoghi». Scrivere era per lui un dovere, una missione che lo migliorava, lo faceva diventare più uomo. «Quando scrivo, mi sento più giusto di come sono (se lo sono) nella realtà, più onesto e più severo con me stesso. E quindi con un’obiettività estrema, con la mancanza di qualsiasi altro interesse – anche ideologico, anche sentimentale : soltanto con l’obiettivo di dire la verità, e quindi di rendere giustizia a quelli che sono stati vittime di metodi e azioni interessate».

Scriveva anche per «avvicinarsi all’eternità», quasi fosse il suo modo di pregare. Profondamente legato alle tradizioni cristiane che erano state l’elemento coagulante della sua gente, e con la Bibbia sempre a portata di mano, si considerava tuttavia l’«uomo del dubbio» riguardo alla fede in un’entità superiore; toccato invece fino alla commozione dalle «manifestazioni di tenerezza, innocenza e grazia da parte dei miei simili come pure degli animali», in cui riconosceva una scintilla di divino. Scriveva dalla mattina fino al tramonto del sole con l’intervallo del pranzo e la consueta passeggiata pomeridiana nei boschi e nei dintorni. Ogni tanto dai fogli coperti di una calligrafia quasi indecifrabile (almeno nella prima stesura) alzava lo sguardo verso la finestra spalancata sulla campagna, dove tra gli ulivi intravedeva un lembo di Adriatico. Bastava lo sfrecciare di un uccello o una vela tremolante all’orizzonte a dargli il senso del contatto con le altre creature viventi, facendolo sentire parte di una umanità per la quale aveva senso il frutto della sua fatica.

In famiglia non parlava mai del suo lavoro: assoluta segretezza con chiunque, perfino con l’amata  moglie Laura. Per una sorta di pudore? Per non essere invadente? Tutto l’opposto di certi geni della letteratura che hanno monopolizzato i familiari, e in modo speciale le mogli, al tempo stesso loro adoratrici e indefesse segretarie. Col tempo, sviluppandosi una vena onirica, la sua prosa acquisiva sempre più un afflato poetico. Poesia scabra come le bianche pietre d’Istria a cui si abbarbicano i i pini, poesia di uomini e donne umili custodi di valori universali e perenni.

Tomizza aveva conosciuto i Focolari nel 1955 tramite il fratello Nerio. L’anno successivo, durante una Mariapoli a Fiera di primiero, era rimasto impressionato dalla purezza degli occhi di Chiara Lubich: non li avrebbe più dimenticati. Poi la sua missione di scrittore, totalizzante come ogni vocazione, l’aveva assorbito; ma da quel contatto con una comunità vitale la sua anima preparato al messaggio della fraternità della famiglia umana aveva ricevuto un timbro indelebile. E del resto, tutta la sua opera appare ispirata dall’amore per l’uomo, all’abbraccio degli umili e dei diversi, alla necessità di arrivare ad una pacifica convivenza tra i popoli.

Schivo dei circoli letterari, ma non di amicizie con altri colleghi, che coltivava però più che altro epistolarmente, era l’antitesi dello scrittore narcisista che sa offrire al suo pubblico esattamente quello che si aspetta. Lui no, andava avanti per la sua strada; e se alcune sue storie, per la scelta del soggetto, possono apparire lontane dagli interessi di oggi (come quando attinge ad una cronaca del Seicento per descrivere i casi di una finta visionaria, o come quando si appassiona alle vicende tumultuose del vescovo apostata Vergerio), esse costituiscono ogni volta un affondo nell’anima dell’uomo di sempre, tale da mettere il lettore di fronte a sé stesso, alle proprie scelte civili e morali.

Era un generoso incapace di dire no a chi si rivolgeva a lui, come se si sentisse sempre in debito verso gli altri. Dare era la sua gioia. Gli occhi gli brillavano quando tornava a casa raccontando che aveva potuto aiutare qualcuno. Fuori appariva come un uomo semplice, scherzoso, mite (qualche sfogo violento si placava subito, come un temporale d’estate). Contemporaneamente la sua acuta percezione degli altri e di sé stesso, con i limiti che appesantiscono gli slanci dell’anima che elevano, ne faceva un uomo tormentato. Pessimista,  ma non disperato.

Negli ultimi anni, nel pieno di una crisi esistenziale cui non era estranea la malattia subdola che lo avrebbe portato alla morte, era arrivato a pensare al suicidio. Fu quando gli sembrò di essere scrittore superato, che non aveva più nulla da dire nel mutare dei tempi e l’avvicendarsi delle generazioni. Che senso aveva la sua fatica, il suo dono, se non c’era chi era disposto a riceverlo? L’isolamento a lui caro a Materada dovette essere percepito, in quel frangente, come una prigione senza scampo. Ma anche allora, scrivere gli valse da medicina. Esiste un testo bellissimo ma terribile, che testimonia questa intensa sofferenza: è I rapporti colpevoli, che lo mantenne a lungo esitante sull’opportunità di una pubblicazione. L’ultima opera curata in vita da Tomizza è invece Le mie estati letterarie: una raccolta di saggi e racconti dove ritroviamo, assieme ai temi prediletti, la sua voce di sempre, venata di malinconia, ma col calore di chi scambia confidenze accanto al fuoco, assaporando un bicchiere di vino.

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