L’ispettore che sfornava romanzi

Viaggio nel Galles al seguito di Anthony Trollope, lo scrittore vittoriano che ha saputo riscattare la banalità del quotidiano creando personaggi antieroi densi di umanità

L’itinerario odierno ci trasporta nel celtico Galles, una delle quattro nazioni costitutive del Regno Unito, terra di narcisi e di cantori, di castelli e di industrie minerarie, nonché di leggende: e precisamente nella contea di Carmarthenshire, dove una grotta appena fuori il capoluogo Carmarthen viene indicata come luogo di nascita del mago Merlino. La meta però è Llanfeare, proprietà lì nei pressi dove è ambientato Il cugino Henry, romanzo tra i meno noti di Anthony Trollope (1815-1882), ma non tra i meno interessanti, ora riproposto da Passigli Editori.

Accolto a suo tempo da una critica entusiastica, che lo definì un abilissimo studio di caratteri, Il cugino Henry riesce a presentare in maniera più concentrata, rispetto ad altri titoli di maggior mole, i temi prediletti da questo scrittore che assieme a Charles Dickens e a William Thackeray viene annoverato tra i più significativi rappresentanti dell’età vittoriana in campo letterario. Con una caratteristica: se l’autore di David Copperfield è celebre per la sferza sociale e quello della Fiera delle vanità per l’ironia moralistica, Trollope, con i suoi racconti ambientati nella provincia e nella campagna inglesi, sembra documentare in maniera più sottile e aderente al reale dei suoi due colleghi la società anglosassone del XIX secolo, che per l’appunto era potentemente condizionata – anche in campo culturale – da un ristretto gruppo di proprietari terrieri.

E proprio ad uno di questi, Indefer Jones, appartiene il testamento da cui prende le mosse Il cugino Henry, storia di una eredità contesa tra due cugini: la giovane Isabel Broderick, che viveva con lo zio, ma aveva il difetto, per il possidente gallese, di  avere un cognome diverso dal suo, e Henry Jones, un commesso residente a Londra, che lui però disprezzava pur avendo il suo stesso cognome… Ma chi ha fatto sparire il testamento che dovrebbe mettere in chiaro le cose? Per non togliere al lettore il piacere della scoperta, non riveliamo lo scioglimento di questo quasi “giallo” nei cui «calmi e meticolosi quadri – scrive Oddone Camerana nella prefazione – già si agitano le cupe fatalità proprie di un imminente fine secolo».

Diciamo piuttosto qualcosa sull’autore, il cui apprezzamento in Italia è crescente grazie ad alcune piccole editrici come Passigli, che vanno pubblicando suoi romanzi già noti o anche inediti.

Trollope, che in gioventù conobbe la precarietà economica e l’emarginazione, era figlio d’arte (la madre scrisse romanzi di successo). Autore prolifico, produsse 47 titoli tra romanzi, biografie, libri di viaggio, raccolte di novelle e una Autobiografia postuma del massimo interesse per la luce che getta sul mondo letterario del suo tempo. Fu infatti amico dei maggiori autori anglosassoni contemporanei, ammirato anche da Tolstoj.

La sua vasta produzione narrativa è in parte riunita nel “ciclo del Barsetshire”, magistrale affresco della vita di alcuni proprietari terrieri e della Chiesa d’Inghilterra nella immaginaria contea di Barset; e nel “ciclo dei Palliser”, movimentato dalle vicende di una famiglia aristocratica e in particolare del suo membro più autorevole, diventato primo ministro.

Eppure la sua vera professione era un’altra: fece carriera nel servizio postale, giungendo a ricoprire un posto di rilievo come ispettore (a lui si deve, fra l’altro, l’introduzione in tutto il Regno Unito delle pillar box, le cassette per imbucare le lettere dal caratteristico color rosso).

Come poté Trollope conciliare due attività tanto diverse? Dedicandosi alla scrittura nelle ore libere dall’ufficio e durante i lunghi viaggi richiesti dal suo lavoro. Sembra anzi che dalle lettere smarrite attingesse non pochi spunti per i propri racconti. A forza di scrivere con tenacia tremila parole al giorno, riuscì a sfornare romanzi fluviali nei quali vengono stigmatizzate l’ipocrisia e l’assenza di autentici valori morali della società vittoriana.

Sono storie, le sue, senza un vero lieto fine, ma neppure tragico; con personaggi “antieroi” rappresentati nei loro pregi e difetti, grazie ad una profonda comprensione della natura umana che lo rende indulgente anche verso quelli meno simpatici: è il caso dell’arcidiacono Grantly de L’amministratore, circa il quale lo scrittore si premura di avvisare i lettori: «Temiamo che queste pagine lo abbiano rappresentato peggiore di quale sia veramente, ma abbiamo avuto a che fare con il lato debole dell’uomo e non con le sue virtù… e ci è mancata l’opportunità di presentarlo nel suo aspetto più valido».

E a proposito di personaggi (memorabili soprattutto quelli femminili per lo scavo psicologico, come appunto nel Cugino Henry) e del rapporto strettissimo che un romanziere deve avere con i propri, Trollope scrive nella sua Autobiografia: «Essi devono stare con lui quando si corica per dormire e quando si sveglia dopo aver sognato».

Con i mezzi più semplici, riscatta il quotidiano dalla sua banalità, facendone riscoprire la “dimenticata poesia”, e riesce a scovare l’elemento drammatico di casi umani che un occhio superficiale giudicherebbe insignificanti: è il motivo per cui il lettore, nonostante la scrittura dimessa e il ritmo lento, finisce immancabilmente per esserne sedotto.

Lo scrittore Henry James, che pure rimproverava a Trollope le lunghe digressioni e l’abitudine, nei suoi romanzi, di rivolgersi ai lettori in prima persona, nondimeno afferma: «Il suo più grande ed incontestabile merito è la sua totale comprensione dell’usuale… Egli riusciva a sentire tutte le cose del quotidiano oltre che vederle. Le sentiva in un modo semplice, salutare, diretto, nella loro tristezza, nella loro letizia, nel loro fascino come nel loro aspetto comico ed in tutti i significati ovvi e ragionevoli».

 

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