L’ironia leggera di Incastrati

La nuova serie Netflix di Ficarra e Picone si guarda con piacere, fa ridere.  Tuttavia manca di qualità contenutistica risetto ad altri lavori del duo comico.
Foto LaPresse - Fabio Ferrari

La Sicilia, le serie tv, la mafia. Ci sono questi tre argomenti, insieme a un po’ di sentimenti, nei sei episodi totali di Incastrati, i quali – lunghi circa mezz’ora l’uno – dal 1 gennaio scorso sono interamente disponibili su Netflix. Ne sono protagonisti, per la prima volta nell’avventura di una serie televisiva, i due comici Ficarra e Picone, che interpretano due elettricisti amici dagli anni del liceo: due normali, buffi, semplici, un po’ imbranati e in fondo teneri, cittadini italiani.

Con le proprie manie e abitudini, coi propri caratteri uno più timido (Picone) e l’altro più intraprendente e maldestro (Ficarra). Uno mammone (sempre Picone), ancora in casa con la mamma che prepara dolci alla ricotta – anche se lui ne è allergico – e l’altro (Ficarra) grande appassionato di serie crime poliziesche: soprattutto di una dal titolo The touch of the Killer. Il primo è innamorato di una donna da anni, ma non ha mai trovato il coraggio di prendere la situazione in mano; il secondo è sposato, senza figli, con la sorella del primo. Entrambi finiscono, totalmente per sbaglio, ma un pò anche per le troppe puntate della serie viste da Picone, in una vicenda di mafia che li metterà in serio pericolo e li vedrà prima terrorizzati e pusillanimi; poi pian piano più coraggiosi e pronti al riscatto.

Foto Mario Cartelli/LaPresse

Niente di serio e di drammatico, ovviamente: l’operazione, decisamente per il grande pubblico, è esclusivamente da ridere, totalmente comica. Diciamo più vicina alle atmosfere di Johnny Stecchino che a quelle di La mafia uccide solo d’estate, per intenderci. E, sebbene non manchino qua e là situazioni e battute divertenti, compresa qualche stilettata in stile Zalone a certo malcostume italiano, un pò questo è un peccato, perchè Ficarra e Picone sono gli stessi di quel piccolo gioiellino dal titolo L’ora legale – un film del 2017 sull’importanza di ogni singola persona appartenente alla comunità per costruire una società migliore – e di un altro film del 2019, Il primo Natale, che all’intrattenimento univa un certo, apprezzabile, impegno.

Era perciò possibile, se non lecito, aspettarsi anche qui un pizzico di qualità contenutistica in più, di maggiore impegno, appunto, una leggerezza più intrisa di sostanza, quando invece la serie sembra accontentarsi di intrattenere scorrevolmente, e il ritratto caricaturale dei mafiosi (uno di loro si arrabbia davanti all’uso esagerato dei verbi) è sempre apprezzabile, ma non abbastanza deciso nel ridicolizzare a sufficienza la piaga che questa rappresenta. Da questo punto di vista, nonostante la brillantezza e la funzionalità del meccanismo narrativo, siamo un passo indietro rispetto ad altri lavori del duo, perchè se da una parte non ci si annoia mai e i minuti volano via piacevolmente, dall’altra, durante i titoli di coda ti accorgi che non ti è rimasto molto addosso. La satira è leggera, leggerissima fino all’evanescenza, l’intelligenza e la genialità si avvertono ma non si dedicano allo scavo, alla stratificazione, all’approfondimento.

Ci sono ottimi attori a completare il quadro, a insaporire il racconto: Leo Gullotta – nel ruolo di un funzionario di Polizia di alto livello; Toni Sperandeo, mafioso chiamato “cosa inutile” (per una vecchia storia per la quale si parla di un sacerdote in modo non troppo edificante), insieme ad altri bravi caratteristi siciliani già visti in serie o film sulla mafia, tutti impegnati a costruire situazioni divertenti, in questo esperimento tutto sommato godibile e non volgare ma nel quale i passaggi davvero costruttivi, quelli che possono sublimare il comico in emozionante, sono troppo diradati.

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