L’invenzione del bello

Prima tra le civiltà classiche, quella sviluppatasi attorno al Nilo ha espresso attraverso le arti un concetto di bellezza “sublime” capace di entrare in sintonia con l’uomo di tutti i tempi
Affreschi tombe egizie

Dopo aver visitato le meraviglie dei musei del Cairo e di Luxor, delle Piramidi di Giza, dei monumenti funerari della Valle dei Re e della Valle delle Regine, per non parlare di altri siti celebri dell’antico Egitto, gli occhi e gli animi colmi di visioni stupefacenti, tentiamo di riordinare le idee. Immaginiamo, sulla scorta di quanto ammirato, di trovarci nell’ultima dimora – intatta stavolta – di un faraone o di un suo alto dignitario, di un potente insomma.

Ed ecco la prima cosa che balza agli occhi: qui, contrariamente all’immagine funerea che potevamo farcene, tutto parla di vita e di bellezza. Si è accolti in una vera casa, allietati dalla policromia delle pareti affrescate o da bassorilievi, anch’essi colorati, riproducenti scene di vita quotidiana, cerimonie solenni o deliziosi quadretti naturalistici.

Sul fondo bianco della volta si staglia un lussureggiante pergolato di viti, in mezzo a cui operai si affaccendano nella raccolta e nella pigiatura di grappoli maturi. Qui, da un papireto dipinto che sembra ondeggiare alla brezza, si leva un volo d’uccelli, mentre anatre e ibis sguazzano allegramente nella piena benefica del Nilo. Là fanciulle in sottilissime tuniche di lino chiacchierano tranquille, sventolandosi con ventagli o reggendo indolentemente fra le dita fiori di loto: sulle loro elaborate parrucche il cono di grasso profumato si scioglie intridendo a poco a poco capelli e vesti (non pare di avvertirne la fragranza?).

Più avanti, un faraone e la sua sposa affrescati, raggianti di giovinezza, siedono l’uno accanto all’altra, ricevendo gli omaggi di qualche dignitario; lei gli cinge con gesto affettuoso una spalla. Non manca, ai piedi dei loro scranni, l’agile figuretta di una bambina che sembra trastullarsi con un cane, forse una delle loro figlie. L’immagine serena e imperturbabile del re è moltiplicata anche da sculture in granito, porfido o altra durissima pietra, a fianco magari – quale divino custode dell’ordine cosmico – di qualche divinità del pantheon egizio.

L’intera tomba trabocca delle raffinate suppellettili di cui il suo signore amava circondarsi nella vita terrena. Offerte di fiori, cibi e aromi preziosi, rinnovate di tempo in tempo dagli addetti alla custodia e al culto dei morti, danno l’idea di una presenza sempre vigile, premurosa verso chi ha intrapreso sulla barca dorata di Ra il viaggio verso l’immortalità. Immagini di vita dunque, per evocare quella che non avrà fine. La stessa mummia rimane invisibile nei molteplici sarcofagi sui quali è il ritratto idealizzato, eternamente giovane e con gli occhi aperti, del defunto.

Chi associa l’arte egizia ad alcunché di funerario possiede una visione ancora troppo parziale di essa; anche se è vero che sono state le tombe erette per sfidare il tempo, malgrado le spoliazioni subìte nel corso dei millenni, a tramandare fino a noi le testimonianze più eccelse di questa civiltà.

Lungi dall’essere pura riproduzione dei modelli naturali, per il costante richiamo ad una meta ultraterrena, quest’arte è riuscita in ogni sua forma a trasfigurare la realtà pura e semplice, sfrondandola di ciò che è occasionale ed effimero e ammantandola invece di spirituale splendore. Nell’antico Egitto, infatti, prima ancora che nella Grecia classica, l’arte ai suoi albori s’è proposta la meta del bello “sublime”.

Quali i mezzi adoperati? Leggi perfette, regolanti le proporzioni della forma, leggi che hanno permesso di trasmettere inalterata ai posteri la potenzialità artistica di chi le concepì. Ed ecco perché si può parlare di un’arte “universale”, più che espressione dell’individuo, rimasta sostanzialmente unitaria pur entro un arco lunghissimo di secoli; e proprio perché senza tempo, capace di suggestionare l’uomo di sempre  e di ispirare artisti delle più diverse scuole.

Se volessi con una sola immagine capace di esemplificare quanto detto non saprei quale scegliere. Certo però che una mi è rimasta particolarmente impressa, ed è la statua della dea Iunit proveniente dal tempio di Karnak, ora al Museo del Cairo. Scolpita in granito grigio dagli inconsueti bagliori e datata 1404-1365 a. C., è ieraticamente seduta in trono, nota come la “Monna Lisa” di Luxor per quel suo sorriso appena accennato che dona grazia a tutto il viso.

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