L’inutile guerra cantata da Olmi

Torneranno i prati esce oggi in anteprima mondiale. Un racconto visione sulla Grande guerra dove gli uomini muoiono sotto la neve in attesa di prati fioriti che ne cancelleranno il ricordo. Struggente la bellezza della natura e la richiesta di perdono per l’ennesima inutile strage
Una scena di Torneranno i prati di Ermanno Olmi

Anteprima mondiale oggi per l’ultimo lavoro di Ermanno Olmi Torneranno i prati. Il regista bergamasco, 83 anni, attualmente ricoverato in ospedale a Milano per motivi di salute, ha girato in alcuni luoghi della prima guerra mondiale, cioè l’altopiano di Asiago dove vive, un film di grande bellezza e di rara acutezza spirituale. Un passo in avanti come poesia e profondità espressiva rispetto a certo didascalismo dei precedenti Cento chiodi e Il villaggio di cartone (2011).

Memore dei racconti di guerra del padre (a cui ha dedicato il lavoro) ed anche, in parte, del racconto di Federico De Roberto (del 1921) La paura, il film però li trascende e può definirsi come una visione illuminata della memoria.

La storia non è realistica, anche se le riprese in una trincea, sotto quattro metri di neve, sono autentiche, come le nevicate e il paesaggio. Il racconto dell’inverno del 1917 con le bombe degli austriaci vicino e la ritirata di Caporetto all’orizzonte, si snoda per volti e corpi di personaggi smarriti dentro una trincea-prigione dove finiscono i sogni di una gioventù “tradita”, secondo Olmi, da poteri superiori egoistici, allora come oggi.

Il lento martirio degli uomini scorre nel ritmo del rancio che arriva con la posta dal mulattiere meridionale che canta solo in mezzo alla neve. Si intristisce il cuore di fronte alla morte nelle preghiere del cappellano, nel soldato che si spara in trincea disperato, nel seppellimento dei morti cui sovrintende il giovane tenentino dagli occhi sbarrati, dentro quella neve che ora li avvolge ma poi si scioglierà e torneranno a fiorire i prati e di quei morti nessuno se ne ricorderà più, nell’oblio della memoria.

Film di silenzi sterminati, di visioni oniriche come quell’abete argenteo, segno di una luce superiore di bellezza e di vita, ma distrutto dal fuoco nemico e ridotto a fiammata contro il cielo azzurro. Nei cieli splende sovente il plenilunio sopra le distese innevate. Olmi lascia cantare la poesia della sua anima, ancora pura, in una contemplazione lirica della natura (tra Virgilio, Petrarca, e Leopardi) ripresa nella sua struggente bellezza con prati e foreste che si allungano, come i cieli, all’infinito. E così, tanta è l’armonia della natura che continua a vivere, altrettanta è la disarmonia degli uomini in lotta fra loro.

Su questo universo del cielo che si incurva sulla terra e sugli uomini, piccoli e fragili di fronte alla morte incombente, il regista stende il suo antico e autentico sentimento della pietas cristiana. Dio sembra anche lontano, il Dio che ha lasciato «morire in croce il figlio», come dice un soldato, mentre risuona alta l’evangelica richiesta del perdono per il tradimento alla vita mediante un’inutile strage. Allora come ora.

Fotografato in un poeticissimo bianco e nero seppioso, recitato appassionatamente dagli attori (Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria e molti altri), accompagnato da alcune musiche cantilenanti e rare di Paolo Fresu, il racconto-meditazione-visione lascia le ultime battute ai filmati di guerra autentici con assalti e trionfi e chiude con l’immagine delle croci (=vite) spezzate e abbandonate nei cimiteri.

Oggi è il tempo dell’oblio, dice amaramente Olmi, mentre occorre invece svegliare la memoria. E di essa egli si fa cantore e custode, tremendo e affettuoso. Un’opera di commovente sincerità, girata da un autore che ha ritrovato la parte migliore di sé stesso nella poesia manzoniana degli umili e degli indifesi e nel dolore dei giovani dai sogni infranti.

Il dolore è infatti la tematica sottesa all’intera narrazione: una sofferenza mai gridata, ma detta da occhi e scarne parole, da abiti stracciati, da fango e paura. L’occhio pietoso del regista la estrae e la dice soprattutto con le lunghissime pause e i silenzi che sono da sé voci di vita, in un racconto dove nulla v’è di superfluo e in soli 80 minuti si sfiora un capolavoro dolce e tremendo. Forse non c’era di meglio per ricordare i cent’anni della inutile strage.

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