BUU, l’Inter contro il razzismo
Quando il destino di una squadra è scritto nel nome, certe prese di posizione non possono che essere nel suo dna. «Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo i fratelli del mondo»: recita così l’atto costitutivo che a Milano, il 9 marzo del 1908, ha dato vita a una delle più gloriose società di calcio italiane ed europee. Quando nelle tue vene scorre la naturale propensione a guardare oltre i confini, anzi ad abbatterli, è naturale che la risposta ad episodi di becero razzismo sia originale e anticonvenzionale.
È passato quasi un mese da quell’Inter-Napoli giocato la sera di Santo Stefano e passato alla storia per gli ululati razzisti che, nel corso di tutta la partita, hanno bersagliato il difensore partenopeo Kalidou Koulibaly. L’espulsione di quest’ultimo, arrivata alla fine del match per gli applausi all’arbitro dopo un iniziale cartellino giallo, è stata anche figlia della scarsa lucidità: non è facile giocare a calcio quando migliaia di persone ti irridono per il colore della pelle. L’Inter ha pagato il comportamento di parte del pubblico con due turni a porte chiuse: il calciatore azzurro con due giornate di squalifica.
Il Napoli ha fatto ricorso contro uno stop parso eccessivo, ma l’inflessibilità della Corte Sportiva d’Appello della Figc ha subito spento la speranza di una decisione che, a suo modo, avrebbe potuto essere rivoluzionaria. Mattia Grassani, avvocato del giocatore, ha senza mezzi termini dichiarato: «Ha perso lo sport. La vittima della discriminazione deve pagare, dopo le umiliazioni, anche il prezzo della squalifica».
L’Inter, dall’altra parte, ha invece dato una grande lezione di sport e umanità: la società nerazzurra, infatti, non ha soltanto evitato di fare ricorso per la squalifica inflitta, ma ha anche sfruttato il triste episodio dei cori contro Koulibaly per costruire una campagna di lotta al razzismo, dal nome emblematico: BUU – Brothers Universally United.
Il video che ha lanciato l’iniziativa, seguito dall’hashtag #NoToDiscrimination, è un manifesto del mondo nerazzurro. Il presidente Steven Zhang, il vice-presidente Javier Zanetti, il capitano Mauro Icardi, due vecchie glorie come Luis Figo e Samuel Eto’o pronunciano la frase «Brothers Universally United – BUU», con Zanetti che poi specifica: «Write it, don’t say it». BUU va scritto, mostrato, utilizzato nei commenti dei social network, ma mai pronunciato in uno stadio verso chi ha un colore della pelle diverso.
Una campagna social a cui si è unita l’iniziativa di riempire i vuoti di San Siro, nella gara di campionato contro il Sassuolo, con oltre undicimila bambini delle scuole a cui è stato consegnato un cappellino con la scritta “BUU”. Anche Luciano Spalletti, tecnico nerazzurro, si è mostrato entusiasta: «È un messaggio importantissimo, grazie ai bambini possiamo migliorare il nostro mondo».
Al Meazza è stato presente anche Max Donaghey, ragazzino scozzese di 12 anni che, con la famiglia, aveva acquistato i biglietti per assistere alla gara con i nero-verdi emiliani. La squalifica di due turni aveva infranto il sogno di Max: alla fine, la gara di solidarietà messasi in moto dopo gli accorati appelli del padre, ha trovato una lieta conclusione. I Donaghey, infatti, si sono aggregati all’Istituto Comprensivo Sabin di Segrate (Milano), prendendo posto in tribuna. L’Inter ha pareggiato 0-0 col Sassuolo, perdendo terreno dal Napoli nella lotta al secondo posto. Mai come stavolta, però, il risultato passa in secondo piano. La lezione di tifo, sport e vita dei “Fratelli del Mondo” rimarrà nella mente e nel cuore delle migliaia di ragazzini che hanno festosamente invaso San Siro.