Lino Guanciale è il tenebroso commissario Ricciardi
Mani in tasca e con lo sguardo sempre in tensione, sembra parlare solo attraverso gli occhi. Caratterizzato da un ciuffo ribelle sulla fronte tenuto ben incollato dalla brillantina, e da un impermeabile sempre indosso, Lino Guanciale è il Commissario Ricciardi, l’eroe della fortunata serie di romanzi gialli di Maurizio de Giovanni diventati ora una serie televisiva (produzione Clemart e Raifiction) con la regia di Alessandro D’Alatri, e in onda dal 25 gennaio su Rai1.
Tormentato da una strana dote ereditata dalla madre, un terribile segreto che non può svelare a nessuno, quella del commissario di polizia è una figura piena di chiaroscuri, alla quale Guanciale sa restituire tutte le sfumature aggiungendo ulteriori toni e dettagli con la sua intensa interpretazione. A fare da sfondo alle indagini di Ricciardi e al suo mondo condizionato dal paranormale, è la Napoli fascista degli anni ’30. La maledizione che lo accompagna, lo ha costretto a chiudere le porte all’amore. Vive una vita solitaria, accudito da Rosa, un’anziana tata che lo ama come se fosse un figlio.
La caratteristica principale del commissario è una capacità investigativa fuori dal comune. Descrivici chi è, e cosa ti ha colpito del personaggio che hai interpretato…
Della sua figura mi colpisce molto l’empatia. In realtà, dall’esterno, Ricciardi è talmente schermato da risultare una specie di sociopatico. Non parla con nessuno, ha una cerchia ristrettissima di rapporti personali che si limitano a 4 o 5 persone con le quali peraltro non parla e non condivide granché dei suoi pensieri, delle sue emozioni o sentimenti. Ricciardi ha ereditato dalla madre un grande dono, che è anche una maledizione: quello di poter vedere e sentire l’ultimo sentimento e l’ultimo pensiero di chi è morto di una morte violenta che sia essa omicidio, suicidio, tragico incidente, sul lavoro o altro.
Quindi la sua vita è continuamente popolata da queste immagini che gli compaiono all’improvviso…
Se cammina in una strada, sono quasi di più le immagini che vede intorno di persone che si sono tolte la vita o che gli e l’hanno tolta, o persa per una tragica accidentalità, che le persone reali. In questo paesaggio in cui i morti e i vivi si confondono, quello che gli grava addosso è il peso dei sentimenti, degli amori, delle passioni, dei dolori, degli odi degli uomini.
Perché sceglie di fare il commissario di polizia?
Per non diventare definitivamente pazzo sceglie un mestiere che lo porta, una volta individuato chi è il responsabile della tal morte violenta, a liberare le anime da chi è trapassato da questo eterno ripresentarsi dell’ultimo pensiero, dell’ultimo sentimento. Ed è quindi per ricomporre in ossequio alla giustizia per gli uomini, che diventa uomo di legge, ma anche per liberare se stesso in qualche modo, e per dare un senso a questo dono che ha. Se poco a poco, da quello che è l’ultimo pensiero del sentimento di un morto, gli derivano degli indizi che gli fanno capire di chi è la responsabilità, deve per forza fare in modo che qualcosa quadri nell’ordine delle cose, e chi ha la responsabilità della morte di qualcuno paghi per questo.
In questo ricomporre la giustizia per gli uomini, Ricciardi dà un senso alla propria esistenza, al proprio dono e alla propria maledizione…
E in qualche modo si libera sensibilmente dai pesi da cui è gravato. Però di tutto questo non dice niente ad alcuno. Nessuno sa il motivo del suo essere così taciturno, del non volere troppe persone attorno a sé: perché non vuole appesantire nessuno di quelli che sono già i suoi pesi. È innamorato ma non dice alla persona che lo è perché non vuole doverla gravare del peso di questa sua dannazione; non parla con gli amici per lo stesso motivo. La conseguenza è che un uomo enormemente capace di empatia, capace di condivisione emotiva col mondo, risulti invece, per tutti, l’opposto, uno completamente chiuso. Sicché doverlo interpretare, è stata una vera sfida. Perché questa chiusura sia, apparentemente, la forma del rapporto con la realtà di Ricciardi, che si avverta la sua schermatura assoluta, bisogna che sia tradita dagli occhi e dai momenti in cui, invece, attraverso di essi, lui è capace di entrare nel mondo degli altri, di mettersi nei loro panni. Soltanto gli spettatori e i lettori sanno, o sapranno, di Ricciardi quello che tutti quanti gli altri intorno a lui non conoscono. Ed è con loro che questo punto empatico va costruito. Sicché c’è al fondo di questo personaggio una sfida teatrale molto forte, perché è come se l’interlocutore vero di Ricciardi, colui al quale unicamente si può appoggiare e raccontare attraverso gli occhi qualcosa, sono gli spettatori e non gli altri personaggi che ha intorno.