Lino Guanciale insegue “Il ratto d’Europa”

«Oggi il teatro, per tornare a far parte delle priorità culturali delle persone, non può che uscire da sé stesso e andare incontro alla gente». Per rispondere a questa necessità è nato il laboratorio che culminerà nella realizzazione di due spettacoli, a Roma e a Modena, con il coinvolgimento dei cittadini
lino guanciale

È partito “Il ratto d’Europa”. Dopo aver infestato Modena, eccolo a Roma. Si tratta di un inedito percorso a tappe, di avvicinamento alla messa in scena di uno spettacolo previsto a maggio e a settembre 2013 nelle due città. Un ambizioso progetto multiculturale (“Per un’archeologia dei saperi”, coprodotto da Teatro di Roma ed ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione), che ha come fulcro un’indagine conoscitiva intorno all’idea di Europa. «Si tratta – spiega il regista Claudio Longhi – di un’avvincente viaggio alla ricerca delle possibili radici della nostra identità europea, affidato ai linguaggi della scena, ma nutrita di tutte le linfe che la vita all’interno di una comunità può distillare. Non un semplice spettacolo dunque, ma un articolato percorso laboratoriale finalizzato ad una messa in scena mediante il quale viene coinvolta l’intera città – per il tramite delle sue scuole, biblioteche, università, musei, comunità religiose, gruppi musicali, associazioni, case protette, realtà dell’impresa, gruppi sportivi – chiamata, idealmente e letteralmente, al racconto scenico del suo rapporto con l’Europa». Artefici del progetto, accanto a Longhi, un gruppo appassionato di attori di primordine, fra cui Lino Guanciale. Ne parliamo con lui dopo la messinscena de “Il sofista” di Platone, spettacolo, che fa parte del progetto, appena rappresentato a Modena.

Qual è la fisionomia del vostro gruppo di attori? Cosa vi unisce?
«Le persone che compongono la compagnia de "Il ratto d’Europa" somigliano a un consorzio, nel senso etimologico. Condividiamo gli stessi obiettivi e un’idea comune riguardo al significato del fare teatro in Italia oggi, riguardo la responsabilità culturale e intellettuale di cui è necessario che gli attori si facciano carico. In più, con gli anni siamo diventati amici, come forse era naturale che accadesse, vista la comunanza di interessi».

Che significato avete dato a questo titolo, “Il ratto d’Europa”, dalla doppia simbologia?
«Ci affascinava l’idea di una parola serissima, aulica, dalla connotazione semantico-mitica molto forte, fraintendibile con un’altra umilissima. Il cortocircuito parodico che ne deriva è divertente ed esprime bene, secondo noi, l’ispirazione naturalmente ironica del nostro lavoro. Inoltre il meccanismo reticolare del progetto evoca un’azione infestante similare a quella “sorcesca”. Sarebbe bello se il "Ratto" contagiasse come una specie di “peste virtuosa”!».

Un progetto che vede coinvolti studenti e associazioni cittadine. Da quale esigenza nasce questo progetto? E quali sono le tappe?
«Fiorisce idealmente dal gran lavoro sulla formazione del pubblico che da anni portiamo avanti, sia a Modena che a Roma. Siamo convinti che oggi non sia più il tempo di aspettare che la sala si riempia da sé ogni sera per lo spettacolo. Oggi il teatro, per tornare a far parte delle priorità culturali delle persone, non può che “uscire da sé stesso” e andare incontro alla gente, a riscoprire e rifondare la propria necessità sociale. Così abbiamo cominciato a chiederci come fare per far scrivere e realizzare uno spettacolo ad un’intera città, tanto per premere ambiziosissimamente l’acceleratore in questa direzione! E alla fine abbiamo elaborato un modello laboratoriale urbano dai mille rivoli, per far prendere corpo nella maniera più convincente a questa utopia».

Quali sono state le reazioni e i risultati ottenuti, finora a Modena, soprattutto con i giovani?
«Strepitosi. A Modena sono quasi settanta le realtà associative e gli enti che partecipano al progetto, e una dozzina sono scuole di ogni ordine e grado (più, ovviamente, l’università); a Roma, dove abbiamo iniziato da pochi giorni, siamo già a quota sessanta partner più una ventina di istituti scolastici (comprese tutte e tre le università della città). A Modena, infine, dove lo spettacolo debutterà a maggio e i lavori sono a uno stadio più avanzato, sono tra i 250 e i 300 gli studenti partecipanti ai laboratori».

Tra le tappe c’è stato anche la mise en space de "Il sofista". Di cosa parla?
«Parla, secondo noi, del ruolo che gli intellettuali devono avere nella società, affronta il problema della loro funzione, richiamando energicamente a una lotta senza quartiere (a colpi di confutazione socratica!) contro la mercificazione della retorica e della cultura in generale».

Perché avete scelto questo testo di Platone?
«Ci dava l’opportunità di esporre quelli che crediamo siano i rischi prodotti dal dilagante “opinionismo” odierno. Se la priorità degli intellettuali diventa la ricerca della visibilità, e dunque la realizzazione di un facile guadagno attraverso la vendita letterale della propria arguzia dialettica, quello che si perde è la testimonianza di verità (le verità scomode, difficili, terribili che tendiamo a rimuovere) che i filosofi e in generale i “colti” sono chiamati ad offrire alla comunità».

Gli agganci con il nostro tempo che il testo offre sono innumerevoli. E, nello spettacolo, lo testimoniano, ad esempio, i video tratti da talk show nostrani reali. Avete voluto metterci in guardia dai manipolatori della parola: politici, opinionisti, persuasori occulti manipolatori delle coscienze…
«Esattamente. Sempre cercando di evitare ogni tono predicatorio, tanto per non finire a “razzolare male” anche noi!».

Cosa può insegnare questo testo?
«Nell’ultima battuta che Socrate ha nello spettacolo si dice, più o meno, che soltanto chi riesce a restare onesto (cosa difficilissima quando si ha a che fare con il potere, in ogni sua forma) può dedicarsi alla politica secondo giustizia, e soprattutto che bisogna dedicarvisi evitando di prendersi troppo sul serio, visto che ci vuole pochissimo “a cadere in contraddizione”, cioè a perdere il filo del dominio razionale su sé stessi. Non credo possa esservi insegnamento migliore di questo, nell’epoca della politica e della cultura “spettacolo”. Quanto alla parola “politica” credo che anche a questo riguardo il testo platonico sia rivelatore, poiché riesce a definirne con naturalezza il senso più alto: “Occuparsi delle persone, anche quelle che parlano a caso”, ovvero quelli che hanno bisogno di un aiuto per imparare a leggere e capire la realtà. Politica e poesia condividono forse una responsabilità simile, quella di restituire alle cose il loro nome e il loro vero significato».

I più letti della settimana

Il sorriso di Chiara

Abbiamo a cuore la democrazia

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons