Lino Guanciale: fare l’attore? Una responsabilità

Il palcoscenico rimane il luogo che predilige. A 35 anni, già un’intensa carriera divisa fra teatro, televisione e cinema, dopo ruolipiù “leggeri”, è ora un agente della Guardia di Finanza nella nuova fiction di Rai Uno Il sistema, diretta da Carmine Elia, con Claudio Gioè e Gabriella Pession.
Guanciale

Quale è il ruolo del suo personaggio?

«In Il Sistema interpreto Michele Grandi, il più giovane e avventato componente della squadra di finanzieri attorno alle cui azioni ruota la vicenda. Sono l'angelo custode di Alessandro Luce (Claudio Gioè), il protagonista infiltrato sotto copertura in una rete criminale dai connotati inquietantemente simili a quelli della banda al centro dello scandalo di Mafia capitale. L'irruenza e la guasconeria di Grandi lo rendono probabilmente il più simpatico dei "buoni" del film, anche se i metodi di ricerca che pratica, per altro sempre con buoni risultati, non sono proprio… ortodossi. Nel corso della storia il suo caratteraccio è destinato a moderarsi sensibilmente, anche in virtù della crescente vicinanza con la (inizialmente) scontrosissima Floriana, ufficiale suo superiore… e decisamente attraente».

 

Come si è preparato?

«Semplicemente riprendendo a fare sport! Per me si trattava del primo "action", e ci tenevo a dimostrare di poter fare un buon lavoro anche in questo genere. Quindi ho insistito per recitare usando meno possibile le controfigure, divertendomi a cavalcare le situazioni "fumettesche" che un simile contesto può metterti davanti.  Serviva una preparazione fisica adeguata, insomma… una buona occasione per rimettersi in forma! I risultati sono stati buoni, credo, visto che ora sono impegnato, sempre per la RAI, nella lavorazione di una serie che ha crismi in qualche modo simili (sebbene più tinti di "giallo"), e che andrà in onda la prossima stagione. Una bella storia "noir" scritta da Lucarelli».

 

Un’intensa carriera alle spalle, e in continua ascesa, divisa fra teatro, televisione e cinema. Ma il palcoscenico rimane il suo primo amore, il luogo al quale non rinuncia. Cosa rappresenta per lei?

«Sul palcoscenico sento di poter rinascere ogni volta. È il luogo dove reinventarmi e ritrovarmi. Se non avessi l'opportunità di stare in scena ogni volta che posso, sento che mi perderei, come artista e come uomo. La mia famiglia ha capito, sin dall'inizio, che questa strada era l'unica che potesse rendermi felice. Anche al principio, dunque, pur non sapendo bene come misurarsi con una scelta tanto "bislacca", i miei hanno deciso di appoggiarmi… Non gliene sarò mai grato a sufficienza».

 

Un docente universitario in “Che Dio ci aiuti”; il figlio di un imprenditore in “Una grande famiglia”; un enigmatico conte dal passato misterioso ne “La dama velata”; e tra breve la vedremo in altre fiction, tra cui un poliziesco e una commedia. Intanto restiamo in attesa della quarta serie di “Che Dio ci aiuti” che riserverà delle sorprese. So che è molto affezionato a questa fiction. Perché? Qual è il segreto del successo che ha avuto?

«Che Dio ci aiutiper me è stata una grande opportunità. È una commedia molto vicina alla dimensione della vita quotidiana, il pubblico ha grande facilità nel riconoscersi nei personaggi e nelle situazioni. È leggera e rassicurante, e le persone sentono il bisogno di "coccole" simili. Poi, personalmente, sento il dovere – e il piacere profondo – di impegnarmi anche in progetti molto meno rassicuranti. Il pubblico va portato anche su strade più complesse. Oltre che a teatro ora anche in tv sto cercando di partecipare a produzioni che percorrono questa strada».

 

La serie, ovviamente, tocca aspetti legati alla dimensione religiosa. Che rapporto ha con la religione, con la dimensione spirituale?

«Non sono credente, ma questo non vuol dire che non abbia una dimensione spirituale interiore "viva". Vengo da una famiglia cattolica senza bigotteria, e credo di aver avuto la possibilità di introiettare un modello di cristianità decisamente positivo, improntato al rispetto e alla tolleranza. In generale credo che il dialogo interreligioso sia l'unica via da seguire con decisione per sconfiggere i fanatismi d'ogni sorta, vero cancro della nostra società».

 

Attualmente è su un set a Trieste, e contemporaneamente a Firenze per un progetto teatrale “Carissimi padri”. Impegnato come è su più fronti la sua vita professionale scorre fra incastri pazzeschi. Oltre alla passione cos’è che la muove in questo mestiere? Perché fa l’attore?

«Lo faccio per imparare ad essere libero. E come ti dicevo, a costo di incastri kamikaze, il lavoro teatrale è di vitale importanza per me, in questo percorso. Per questo sono diventato l'incubo di ogni planner cinematografico o televisivo! Al primo posto c'è la mia necessità di proseguire il dialogo col pubblico dal palcoscenico: i lavori che scelgo di fare per cinema o tv sono vincolati a tale singolare urgenza!. L'esperienza dello scambio diretto col pubblico è la cosa che in assoluto mi ha fatto crescere di più, nella mia vita. Dal palcoscenico mi pare di riuscire a fare una cosa che altrove mi risulta quasi impossibile… conoscere meglio gli altri, oltre a me stesso».

 

Da oltre 10 anni lavora con il regista Claudio Longhi con progetti molto impegnativi per messinscena di spettacoli dalla forte connotazione educativa e sociale (come “Il ratto d’Europa”, e il recente “Carissimi Padri” sulla prima Guerra Mondiale). Un teatro impegnato, ma popolare. Da cosa nasce questa scelta?

«Con Claudio ci siamo chiesti – ormai diversi anni fa, in effetti! – quale potesse essere la migliore strategia per riportare le persone a teatro, soprattutto i più giovani. Ne è nata questa nostra formula di "laboratorio urbano permanente", questa politica di formazione del pubblico che su Modena, ma in realtà ovunque ci sia stata data occasione di applicarla, funziona moltissimo. È bello recitare per spettatori esigenti, che dopo un anno di lavoro fatto assieme alla compagnia sono perfettamente addentro agli argomenti trattati dallo spettacolo… e sono, dunque, anche più pronti a criticare a ragion veduta quello che vedono in scena!».

 

Insieme ad altri suoi colleghi tiene lezioni all’università e laboratori nelle scuole finalizzate alla formazione del pubblico. Perché è importante? E che riscontro ha da parte dei giovani?

«Il riscontro è decisamente confortante. L'insieme delle attività formative svolte tra scuole superiori e università ha portato un macroscopico aumento delle presenze giovanili in sala, e soprattutto ha consentito agli studenti di partecipare agli spettacoli in maniera attiva… ci siamo sempre riproposti di trattare i ragazzi come interlocutori, non come bacino d'utenza per riempire le poltrone del teatro. Cerchiamo di fornire loro gli strumenti teorico critici per comprendere il meglio possibile il testo, la messinscena e il contesto di riferimento.  Credo sia importante che siano gli attori a caricarsi questa responsabilità pedagogica perché l'attenzione degli studenti aumenta significativamente se a parlargli sono quelle stesse persone che poi potranno vedere in scena… ovviamente questo vuol dire, per gli attori, che non si tratta più solo di recitare, ma di studiare per accreditarsi come intellettuali… una rivoluzione copernicana, potenzialmente!».

 

Spesso in chi fa questo mestiere prevale il desiderio di essere additati per lo status sociale, per il riconoscimento di essere proiettato su uno schermo o per l’ebbrezza di una certa popolarità. Invece per fare questo mestiere occorrerebbe aver presente che ci si fa carico di una certa responsabilità culturale. Qual è la responsabilità di un attore vero, serio, onesto?

«Come ti dicevo, l'attore deve avere le competenze culturali adeguate a legittimare la sua delicatissima posizione. Noi parliamo alla gente, la seduciamo, abbiamo la possibilità di portarla "altrove"… è bene sapere fino in fondo dove la stiamo conducendo. Questo, ovviamente, significa porsi anche problemi di natura politica radicali. All'attore, insomma, credo non sia più permessa l'autocontemplazione o l'aureo isolamento in una torre d'avorio. Credo nel potere del teatro come agente formativo più che ad ogni altra cosa… penso sia la mia vera fede, se ne ho una. A teatro puoi imparare la cosa più difficile del mondo: metterti nei panni di un altro».

 

Formuli uno spot pro-teatro per incoraggiare i ragazzi a spegnere la tv, il cellulare e internet una sera a settimana per andare a teatro…

«Se provate, una sera a settimana, ad andare a vedere uno "straniero" che da un palco vi racconta una storia, stando a pochi metri da voi – pochi metri che si dilatano e si restringono da un secondo all'altro, sicché a momenti vi pare di averlo così vicino da poterlo mordere, e in altri vi sembra di essere parte di galassie lontanissime -, e se questo "straniero" è bravo a incantarvi, molto probabilmente scoprirete una cosa… ovvero che una sera sola a settimana non vi basta. Improvvisamente le altre forme di comunicazione "in absentia" vi sembreranno quasi inutili, e vi crescerà la voglia di portare fiori e ortaggi ogni volta che andrete a teatro: per congratularvi con gli artisti o per sbeffeggiarli. Reazioni opposte, ma entrambe benvenute, secondo me!».

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