L’infinita tragedia del Myanmar colpisce un giovane sacerdote

Come spesso ricorda papa Francesco, «la guerra è una sconfitta per tutti». Così anche la guerra in Myanmar è una grande sconfitta per tutta l’umanità, un massacro senza senso dimenticato dai grandi del mondo
Attivisti tailandesi e cittadini birmani che vivono in Thailandia si sono riuniti fuori dall'ambasciata del Myanmar per celebrare il 4° anniversario del colpo di stato militare in Myanmar. 1 febbraio 2025 Ansa EPA/NARONG SANGNAK

Ora è toccato a padre Donald Martin Ye Naing Win: trucidato nella regione del Sagaing, una delle zone teatro della guerra civile del Myanmar. È stato aggredito da uno squadrone della morte composto da 10 uomini, paramilitari, che si erano preparati assumendo droga prima della spedizione punitiva. Assumere droghe è abituale per i militari e paramilitari del regime, prima di azioni particolarmente spietate, per inibire il senso di paura, di vergogna, e dare libero sfogo alla “bestia” che ognuno di noi porta dentro. Hanno chiesto al prete di inginocchiarsi e lui ha risposto, in modo pacato e calmo: «Mi inginocchio solo davanti a Dio: ma se c’è qualcosa di cui volete parlare, ditemi». A questo punto uno degli assalitori lo ha colpito alla testa, e mentre padre Ye cadeva a terra, il capo del gruppo ha continuato a colpirlo alla gola e su varie parti del corpo con un coltello. Padre Ye non ha reagito e non ha pronunciato parola.

«Come un agnello mentre lo stanno sgozzando», ha commentato una delle testimoni. Tutto questo è accaduto il 14 febbraio scorso nella parrocchia di Nostra Signora di Lourdes nel villaggio di Kan-Gyi-Daw, regione di Sagaing, dove Padre Ye svolgeva il suo lavoro, in mezzo ai giovani e agli anziani. Un uomo buono, un prete di pace che spendeva la sua vita a favore degli ultimi, della gente che non può scappare nella foresta, per sfuggire alle persecuzioni delle forze armate del Tatmadaw (o delle milizie paramilitari), le forze golpiste del regime guidato dal generale Min Aung Hlaing.

Padre Ye è stato ammazzato per il solo fatto che era dalla parte della gente comune, che non aveva tradito né denunciato alle brutali forze armate; ucciso perché aiutava la gente, perché era un uomo giusto, di pace: ucciso perché era un uomo che amava la sua gente. Tutta la Chiesa in Myanmar piange il prete di tutti, father Donald Martin Ye.

Le forze di difesa popolare del Sagaing hanno arrestato 10 persone, che si pensa siano coloro che hanno commesso l’orrendo crimine. Questa, e molto di più, è la guerra in Myanmar, dove chi soffre è soprattutto la gente comune. Come a Gaza, come ovunque c’è una guerra.

Si combatte nel Sagaing, a Mandalay e Magwe. Ma violenti combattimenti ci sono anche nello stato di Kachin e in quello di Rakhine. Nord, sud ovest, est: praticamente in tutto il Paese, dove le forze popolari democratiche e le milizie dei gruppi etnici si sono coordinate. Le forze popolari di difesa controllano ormai il 60% del paese.

E le grandi potenze cosa fanno? Il Myanmar è stretto tra la Cina a nord e nordest, e l’India ad ovest. Statunitensi e alleati non hanno interessi diretti, e non hanno certo intenzione di cacciarsi in un Vietnam 2.0 (oppure Cambogia 2.0 o  Afghanistan 2.0) da cui uscirebbero sicuramente sconfitti. Solo un accordo tra Cina e India, tramite l’Associazione delle Nazioni del Sud est Asiatico (Asean), potrebbe mettere fine al conflitto e creare le condizioni per una riconciliazione nazionale e una rinascita del Paese. Almeno per il momento questo non è possibile.

Ecco alcuni dati: le forze popolari di resistenza, unite per la stragrande maggioranza sotto l’ombrello di un Governo di Unità Nazionale in esilio, sono finanziate per la maggior parte dai birmani della diaspora e dal bottino recuperato nelle basi militari sottratte alle forze del regime. Una lotta estenuante tra Davide e Golia: non esiste una soluzione rapida, un silver bullet (la pallottola d’argento) che possa mettere fine al conflitto con un unico colpo. Base militare dopo base militare, cittadina dopo cittadina, le forze di opposizione ai militari stanno conquistando territori e avanzando inesorabilmente: questo se continueranno ad essere unite fra loro e con gli eserciti etnici. Potremmo dire che è solo una questione di tempo per arrivare alla vittoria. Le incognite sono rappresentate soprattutto dalle grandi potenze: la Cina fa affari con il regime e non è interessata ad altro che non sia sfruttare i suoi rapporti commerciali e di strategia economica: un grande porto nel Golfo del Bengala, a ridosso dell’India, e basi militari nelle isole che guardano verso il sub continente indiano. Cose che non potrebbe mantenere se vincessero le forze democratiche, più inclini ad allearsi con l’Occidente. Non dimentichiamo che grandi alleati della Cina sono il Pakistan (con i nuovi porti sul Mare Arabico) e l’Afghanistan (porta verso l’Iran).

Anche l’India continua a fare affari con il governo militare del Myanmar e non vuole certo appoggiare le forze democratiche, avendo anche in casa propria forze ribelli che fanno attentati e poi passano il confine per rifugiarsi in Myanmar. L’Asean non ha né la volontà politica né la compattezza tra Stati membri per imporre al Myanmar una seria e credibile agenda di pace. In fondo, i profughi dal Myanmar fanno comodo a tutte le economie dei singoli Paesi dell’Asean: mano d’opera a basso, bassissimo costo.

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