L’inferno di Totò

Totò nella solfatara

Potevo avere 13-14 anni quando, in gita a Pozzuoli con genitori e fratello, visitai per la prima volta la famosa solfatara, distante circa tre chilometri dal centro città. Ne ho ancora un ricordo vivissimo, tanto rimasi impressionato da questo antichissimo cratere vulcanico ancora attivo ma allo stato quiescente, che nella parte più alta prende il nome di Monte Olibano. Con lo sguardo spaziavo su una vastissima conca ellittica il cui fondo sabbioso, di un biancore accecante, era chiazzato da zone giallastre e rossastre formate dai depositi di zolfo. Qua e là, dalle fenditure delle rocce, si sprigionavano densi vapori biancastri: le caratteristiche fumarole di anidride solforosa. Al centro, una pozza di fango bollente. E altro fango ribolliva nei vulcanelli sparsi nella conca. In questo paesaggio irreale, affascinante, che paragonavo ai crateri lunari studiati a scuola, aleggiava un intenso sentore di zolfo, simile al puzzo di uova marce (quanti turisti si tappavano il naso con dei fazzoletti!).

Avanzai, nel corso della visita, con cautela esagerata su quel suolo che sentivo scottare, come se da un momento all’altro la crosta terrestre dovesse rompersi ed io, con i miei, precipitare in una voragine di fuoco. Non per niente quella zona della Campania era stata denominata dai suoi primitivi abitanti Campi Flegrei, ovvero “ardenti”, terra originata da quaranta antichissimi vulcani e straricca di fenomeni ad essi collegati nonché di acque termali. Per il magma presente nelle profondità la solfatara di Pozzuoli, oggi costantemente tenuta sotto controllo, rappresenta una valvola di sfogo grazie alla quale è possibile mantenere una pressione regolare dei gas sotterranei.

Essa, all’epoca della nostra gita – inizi anni Sessanta –, era abbastanza praticabile, tranne alcune zone pericolose recintate: dovevano ancora verificarsi le crisi bradisismiche del 1970-1972 e poi del 1982-1984, accompagnate dai terremoti che avrebbero causato alterazioni nella caldera (così si chiama in vulcanologia l’ampia depressione formatasi dopo lo sprofondamento di un edificio vulcanico a seguito di una violenta eruzione). Oggi invece, per motivi di sicurezza, il percorso di visita segue per lo più il perimetro del cratere e comprende un pozzo d’acqua minerale (serviva nell’Ottocento sia per cure termali sia per estrarre allume), la cosiddetta fangaia (una pozza di fango bollente, utilizzato anch’esso per scopi curativi, dal quale fuoriescono gas a temperature tra i 170 e 250 gradi), le cave di pietra trachite (attive fino agli anni Cinquanta), la grande fumarola (principale causa del disgustoso odore che caratterizza questo luogo) e per finire le “stufe” (due grotte naturali già sfruttate come “sudatori” per curare patologie delle vie respiratorie e della pelle,  chiamate una Purgatorio e l’altra Inferno, a seconda della temperatura).

A proposito d’Inferno, le visioni dantesche suggerite dalla solfatara puteolana indussero, negli anni Cinquanta, i registi Carlo Ludovico Bragaglia e Camillo Mastrocinque a girare qui alcune indimenticabili scene per due film con Totò: 47 morto che parla e Totò all’inferno. Nel primo, il celebre comico interpreta l’avarissimo barone Antonio Peletti, che si rifiuta di devolvere, secondo il testamento paterno, metà della cospicua eredità per la costruzione di una scuola nel suo comune. Per convincerlo a cedere, gli amministratori comunali assoldano una compagnia teatrale: grazie ad un’efficace messinscena, il barone si ritiene morto e minacciato di terribili punizioni se non rivelerà il nascondiglio del tesoro. Nel secondo titolo, Totò è Antonio Marchi, ladruncolo depresso che, dopo aver tentato più volte il suicidio, finisce accidentalmente in un fiume. Credendo di essere annegato, sogna di trovarsi all’inferno, dove viene scambiato per una reincarnazione di Marc’Antonio e spinto da Belfagor tra le braccia di Cleopatra.

Tralascio le peripezie, le situazioni esilaranti, le gag che movimentano le due pellicole. Aggiungo solo che in entrambe l’Oltretomba è ricostruito in maniera decisamente partenopea, ma con un ammiccamento al Dante dei gironi infernali, nello scenario riconoscibilissimo della solfatara, dove tra i bollenti vapori delle fumarole le anime in pena si aggirano in bianchi camicioni, compreso Totò dall’irresistibile maschera coronata d’alloro!

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