L’infaticabile sognatore di spazi per l’uomo
Capace di far ridere con una battuta fulminea e con il gusto del paradosso e animato da grandi tormenti. Uomo ostinato in tutto e poi improvvisamente dolcissimo e amabile. Precisissimo nella sua professione di architetto e insieme creativo, molto autonomo nel lavoro e insieme desideroso di trovare sintonie e collaborazioni. Molto severo con sé stesso ma accogliente con chi era sofferente, con i piccoli, con gli umili; sobrio e discreto e insieme conviviale e amante di una bella conversazione intorno a un tavolo, con un po’ di vino a scaldare gli animi.
Fedele alle regole che si era imposto ma sempre anticonvenzionale. Ansioso di natura, sempre in fermento ma anche capace di prendersi una pausa per ascoltare; razionale e passionale, con venature di malinconia e sempre pronto al gioco e alla piroletta. Spirito perennemente critico, insofferente ai formalismi, sempre curioso dei più giovani. Sempre elegante, signorile, anche quando affaticato dall’età e dalla malattia scaricava con grazia sul suo bastone di legno il peso dei suoi passi malfermi.
Non è facile scrivere di Carlo Fumagalli a poche ore dalla sua scomparsa, non è facile scrivere perché chi l’ha conosciuto sa che Carlo è come un bosco che si può percorrere per mille sentieri. Le parole sono povere per descrivere una vita e coglierne la ricchezza e le sfaccettature. Ma certamente possiamo dire che Carlo, milanese di nascita, frascatano d’adozione, 79 anni, ha lasciato un segno profondo nelle persone che l’hanno conosciuto e amato.
L’architettura era la finestra da cui si è affacciato sul mondo. Con straordinaria passione e dedizione ha lavorato in molte parti d’Italia, in cittadelle del movimento dei Focolari sparse in tutto il mondo, in Brasile, a Dalwal in Pakistan, e ha realizzato progetti di cattedrali in Africa. Suo è il progetto di ristrutturazione dell’aula delle Udienze di Castel Gandolfo.
Pur essendo molto attento alle forme architettoniche, la sua concezione dell’architettura non si fermava mai al solo manufatto: era interessato alla relazione con le persone, con i luoghi, preoccupato di non imporre modalità costruttive soprattutto quando si misurava con culture diverse dalla propria. In quei casi mi parrebbe più esatto dire che si trasformava in un “artigiano dello spazio”, saggio e attento.
Amava ricordare come la costruzione della chiesa della cittadella di Fontem fosse stata l’occasione per rivedere radicalmente il suo modo di fare architettura. Aveva dovuto abbandonare le certezze del mestiere per aprirsi all’incontro con l’altro. Con la consueta ironia raccontava di come, trovandosi nella necessità di far montare alle maestranze inesperte del villaggio grandi travi di legno sui pilastri, si fosse accorto solo allora che la gru, da quelle parti, non era ancora stata inventata!
Eppure era stato avvisato. Alla partenza da Milano, l’amico Piero Pasolini, un fisico che aveva tanto a cuore Fontem e che spesso vi si recava per dare il suo contributo concreto sul piano tecnologico, vedendo nella sua valigia il “Manuale dell’Architetto”, era scoppiato a ridere. «Perché ridi?», gli aveva chiesto Carlo, «Perché in Africa queste cose non servono; lì, ogni cosa che si fa, va inventata». E così era stato, puntualmente.
Carlo era un cantastorie. Ogni piccolo episodio della vita, in mano a lui si trasformava in un aneddoto e racconto. Così scrive Carlo anni dopo. «Facemmo vari tentativi, ma tutti fallirono. Ci volle provare anche il vescovo Peeters, in quei giorni in visita a Fontem, un olandese alto un metro e novanta, missionario di lunga data e di provata esperienza “tuttofare”. Lavorò un’intera mattinata con una ventina di operai – in queste terre la mano d’opera non manca – per finire col ristendere a terra quella stessa capriata che, con molta fatica, il giorno prima eravamo riusciti a portare in posizione verticale. Ci venne allora l’idea di costruire una rudimentale intelaiatura coi pochi tubi da ponteggio rimediati qua e là, e con l’aiuto di un lungo cavo d’acciaio agganciato al caterpillar riuscimmo a sollevare le capriate, cominciando da quelle centrali più alte. Tutti osservavano, aiutavano, erano entusiasti».
Poco importava allora se la costruzione della cattedrale con questo stile di lavoro sarebbe poi durata qualche decennio. Importante era entrare nella cultura del popolo africano, una cultura fatta di tempi lunghi, di attese, di partecipazione dell’intera comunità al lavoro. Di fronte alle difficoltà che richiedevano un salto creativo o di individuare una soluzione di emergenza, l’intelligenza di Carlo aveva un moto repentino. Erano le situazioni in cui riusciva a dare il meglio di sé. Sempre disponibile a mettere a repentaglio quello che già sapeva fare per imparare qualcosa di nuovo.
Non è mai stato uomo da mezze misure, o tutto o niente. Anche a costo di rendere avventurosa la vita di chi gli stava accanto. Una volta aveva scritto a Chiara: «Quel giorno lontano in cui chiesi di essere preso in Focolare, sapevo che mi si chiedeva di lasciare tutto e in questo tutto c’era anche l’architettura che amavo tanto. Dopo solo una settimana mi veniva chiesto il progetto della chiesa di Fontem (costruita poi tra il 1969 e 1973). Un centuplo, ma forse anche una voce dentro di me diceva: non l’hai persa l’architettura, l’hai soltanto data a me».
Negli ultimi anni l’attenzione alle forme fisiche dell’architettura si era stemperata in una crescente sensibilità per la natura, per il trascolorare delle stagioni, che venivano osservate con stupore e sempre ricollegandole alle stagioni della propria esistenza, della propria maturazione umana e spirituale. Così ricordo che la vista di un grande albero che perdeva foglie ai primi venti dell’autunno lo aveva fatto meditare sul venire meno delle sue forze fisiche.
Per questo oggi con stima, con figliale affetto e con gratitudine infinita voglio dedicargli le parole che Paolo Rumiz ha scritto per Mario Rigoni Stern, scrittore di Asiago. «Stava in cucina sulla sedia a rotelle, un maglione di lana grezza addosso, davanti a un piatto di salsicce e patate con un bicchiere di rosso. Appena toccai la corteccia della mano sentii che non stava morendo, ma solo diventando bosco. Fuori era tutto primule e letame, l’ultima neve splendeva, il disgelo marciava alla grande, tutta la natura si svegliava. Così ricordai quanto mi aveva detto un anno prima. La primavera è la stagione giusta per partire, perché sai che la vita continua».
Sei partito alla fine della primavera, arrivederci Carlo, grande albero. Continueremo a cercare ristoro e ispirazione sotto la tua grande ombra.