L’incredibile viaggio di Sherkhan
Come nasce l’idea del libro?
Ho conosciuto Sherkhan per una serie di coincidenze: la collega di una carissima amica le aveva parlato di un giovane afghano che frequentava le sue lezioni serali di italiano e aveva una storia intensa, forte. Io ero da poco tornata dal Pakistan, ricca di una lunga esperienza a contatto con un popolo lontano e conosciuto spesso attraverso luoghi comuni e notizie mediatiche sintonizzate su un unico canale (terrorismo, fondamentalismo, povertà ecc.) Sentivo profondamente ingiusta l’immagine di questa gente costruita in occidente e avrei voluto in qualche modo sfatarla … Afghanistan e Pakistan sono nazioni vicine, con in comune una parte di storia, con quel rapporto amore-odio che spesso caratterizza i popoli simili ma in competizione. Inoltre a Rawalpindi avevo incontrato molti profughi afghani e con alcuni di loro era nata un’amicizia sincera. È per questo che ho pensato di andare a conoscere Sherkhan. In quel periodo lui era inserito nel progetto SPRAR e viveva in un appartamento del comune con altri ragazzi. Mi aveva colpito subito la delicatezza di questa persona, la sua disponibilità interiore. È stato solo in un secondo incontro, altrettanto casuale, come si racconta nel libro, che la sua vita si è incrociata con quella di tanti amici del Movimento dei Focolari. Penso che questo libro sia nato da tutti questi ingredienti e soprattutto dalla volontà corale del gruppo di far conoscer Sherkhan, di condividere con altri quanto abbiamo ricevuto da lui.
La comunità dei Focolari, si è stretta attorno a Sherkahn, che esperienza è stata?
Si, l’esperienza con Sherkhan è stata subito condivisa. Di solito quando qualcuno della comunità si trova ad affrontare un bisogno o una situazione particolare si mettono in comune le necessità, si cerca di aiutarsi. Così la vita di varie persone si è incrociata con quella di Sherkhan: chi per aiutarlo a cercare un lavoro, chi per fargli passare una domenica diversa, chi gli ha affittato l’appartamento. Tanti si sono messi in gioco per stargli accanto quando ha avuto problemi di salute. Attraverso di lui siamo entrati in contatto con tutto un mondo, il mondo degli immigrati. I suoi amici ‘stranieri’ sono diventati amici nostri. È stata una esperienza di famiglia, la prova che con la piccola parte di ciascuno, insieme, è possibile, fare la differenza.
Che stile di racconto e di scrittura hai scelto? Perché hai voluto scrivere la storia in prima persona?
Ho scelto di dare a Sherkhan la parola e di lasciarlo raccontarsi seguendo il filo cronologico della sua vicenda. Dietro il racconto c’è una vivissima esperienza di vita e credo che questo traspaia anche dallo stile che si presta, appunto, a ripercorrere una esperienza. Il libro è quasi tutto al tempo presente proprio perché la storia è fatta di tanti “qui e ora”, Ovviamente è una storia romanzata, ma anche le costruzioni narrative partono sempre da una frase, da una condivisione che qualcuno ha raccolto, da un desiderio, da un dubbio espressi direttamente di Sherkhan.
Come hai ricostruito la sua vicenda?
Sherkhan non parlava tanto e anche se lo ho conosciuto di persona e ci sono state tante occasioni di incontro, ricostruire la sua storia ha richiesto un lavoro paziente. Lui non amava rievocare i motivi che lo hanno allontanato da casa o i momenti duri del viaggio, ma si riusciva ad avere un forte rapporto empatico. Prima di tutto è stato questo che mi ha permesso di cogliere, anche dai suoi silenzi o dalle poche battute messe lì senza esibizionismo, le molte sfumature della sua personalità e del suo vissuto. Poi ho raccolto testimonianze, aneddoti, impressioni da chi lo ha conosciuto. Sarebbe stato impossibile citare tutti nel libro per quanto materiale mi sono trovata fra le mani. Mi ha subito colpito come persone che fra loro non si conoscevano neppure e di nazionalità diverse, usassero le stesse espressioni, a volte le stesse parole per descriverlo come persona e per raccontare l’amicizia che li aveva legati. Così come mi ha sorpreso la disponibilità a collaborare del personale medico e l’incoraggiamento ad andare avanti in questo progetto. Una gratitudine particolare va ai suoi amici migranti che, avendo vissuto la stessa odissea, mi hanno raccontato i particolari del viaggio assurdo che li ha portati da noi, permettendo così una assoluta aderenza alla realtà.
Perché proponi la storia di un migrante, qual è la sua attualità e la sua universalità?
Da diversi anni ormai siamo dentro un processo storico – quello dell’attuale migrazione di massa – che ancora ci ostiniamo a definire “emergenza”, come se dovesse finire da un momento all’altro. È una delle sfide del nostro tempo che investe tutti i Paesi, o come terra di partenza o come meta di uomini, donne, bambini che fuggono da situazioni pesanti e che hanno fame di futuro. Sherkhan era un migrante in piena regola, secondo i canoni del “migrante tipo”. La sua è una storia attuale anche per la triste rotta balcanica che ha percorso e che è tornata alla ribalta in questo freddo inverno con le immagini di un migliaio di persone (e saranno sicuramente di più) bloccate in campi di fortuna in condizioni atroci. Quando lo ho e lo abbiamo conosciuto nella sua quotidianità ci siamo accorti che ciò che ce lo faceva sentire vicino non era la pietà per gli orrori vissuti, ma la sua normalità. Come parlava della famiglia, come si scaldava di fronte alle ingiustizie, come godeva di un pranzo in compagnia, come tutto gli sembrava bello, come vedeva tutti “gentili”. Chissà quanti Sherkhan ci sono dietro i volti che riempiono i barconi e i nostri schermi. Per questo la sua mi è sembrata una storia che aveva qualcosa da dire oggi, poteva essere un piccolo scossone al nostro quieto vivere. Ma anche un segno di speranza perché aiutare Sherkhan ci ha dimostrato che insieme non è impossibile trovare soluzioni, risolvere questioni o anche semplicemente non sentirsi soli di fronte ad un insuccesso.
Da dove nasce la repulsione per i migranti da alcune persone in Italia, senza neanche conoscerli, senza aver parlato con loro, senza conoscere le loro storie?
Penso che sia molto comprensibile che tante persone avvertano i migranti come una minaccia, come un pericolo per quelle piccole sicurezze che vediamo già precarie e minate dalla crisi economica, dalla frammentazione sociale, dai pericoli di un terrorismo che ci ha colpito da vicino. Non sento quindi di esprimere commenti su chi non riesce ad accettare i migranti. Credo però che ci sia di fondo una informazione politica e mediatica incompleta, se non errata, sui veri motivi che stanno dietro gli arrivi sulle nostre coste e, ancor di più, una grande fatica a superare l’individualismo che ci paralizza il cuore. È tutta una cultura che abbiamo lentamente incamerato fino a farla diventare stile di vita e di pensiero rendendoci appunto ciechi di cuore. Papa Francesco ce lo spiega molto bene. Senza entrare in questioni politiche e di gestione di situazioni così complesse, mi pare – come dice la tua stessa domanda – che l’antidoto stia proprio nel provare a conoscere, a parlare, a lasciarsi toccare dalle loro storie. E piano piano, riaccendendo il contatto umano, si troverebbero anche soluzioni sostenibili, idee nuove, coraggio di rischiare per dei fratelli.
Qual è il messaggio che Sherkhan lancia a tutti noi e a te?
Il messaggio più forte, più vero che Sherkhan mi e ci ha lasciato è quello di non temere mai di indossare occhiali positivi, quelli che ti permettono di vedere il bene anche dove non ne appare traccia. È un metodo che mi fa pensare ad una frase di San Giovanni che credo vada bene per uomini di ogni convinzione e credo: «Dove non c’è amore, metti amore e troverai amore».
La presentazione online è martedì 9 febbraio alle ore 18 e 30 sulla pagina Facebook di Città Nuova,
con Daniela Bignone, autrice
Davide Penna, filosofo
Marta Murtas, psicologa
Javaid Hussain, ingegnere petrolchimico
Enzo Nesta e Afridi Abid Ullah, amici di Sherkan
Beatrice Cerrino, insegnante di economia e diritto
Modera: Aurelio Molè, caporedattore Città Nuova
Vi aspettiamo!