L’incontro con l’altro
In Pakistan la vita è basata sui rapporti, intessuta di rapporti. Se la parola “rapporto” evoca qualcosa fatto di colloqui intimi, di scambio intellettuale e spirituale completo, di momenti intensi che ti permettono di entrare nell’anima dell’altro e legano le persone a un livello profondo, vitale, dialettico, allora forse non è il termine esatto. Non è precisamente quello che intendo.
Rapporto è piuttosto il fatto che non si può vivere senza l’altro, chiunque esso sia. L’altro entra – che tu lo voglia o no – nelle tue giornate, nei tuoi segreti, nelle tue gioie e nei tuoi dolori, e tu devi lasciarlo entrare. Nascite, morti, malattie, tradimenti non fanno parte della sfera privata della vita. Si cerca di custodire i segreti se si tratta di affari o se c’è in ballo un visto per andare all’estero. Scatta la difesa di fronte al pericolo di una gelosia, di una cattiveria che potrebbe compromettere un’impresa coltivata da tempo. Ma il resto si vive insieme. Non importa se è partecipazione vera e sentita o solo esteriore: bisogna esserci. Sarebbe impensabile, scandaloso, non precipitarsi in una casa visitata da un lutto recente per porgere le dovute condoglianze e piangere, esternare il dolore, sentito o no, per una persona conosciuta magari solo di vista. Si fanno anche viaggi lunghi per questo, e si sa che si sarà ospitati. Bisogna “esserci”. Magari non si scambiano parole profonde, intuizioni intellettuali, ma si beve il tè in quella tazzina vecchia e sbeccata, ripetendo ritmicamente:
«Phir tike? (allora come va, tutto bene?)».
«Thike or up? (bene e tu?)».
«Thike (bene)».
«Accha, thike (Ok, allora va bene)».
Poi, quasi per caso, raccogli una confidenza buttata lì con indifferenza.
Arrivando da una cultura più individualista ho avvertito dentro di me un muro da rompere. Forse non mi era chiesto di cambiare grandi cose esternamente; ero cosciente che era giusto vivere un dolore o un fallimento personale con dignità, senza metterlo in piazza e senza pensare di mancare, così, a un dovere sociale. Ma avvertivo anche che dovevo sgretolare i mattoni dell’indifferenza dentro di me e non aver paura di fare spazio all’altro, di fargli vedere la mia casa (anche quella del cuore) e non temere di entrare nella sua.
All’inizio era stato proprio strano accettare che al primo incontro, quando ancora si era perfetti sconosciuti, ci si trovasse travolti da una serie di domande personali che spaziavano dalla vita privata all’ammontare dello stipendio, dall’età all’estensione delle proprietà familiari… Poi, piano piano s’impara che rispondere alle domande non è vitale, ma lo è non chiudersi come un riccio.
Tornavo da un finesettimana a Islamabad e per risparmiare, come al solito, viaggiavo di notte. L’aereo atterrava a Karachi verso le 3 del mattino. Ero diventata esperta nel farmi guidare da un certo sesto senso nella scelta del taxi da prendere, dopo aver studiato i volti stanchi di quei tassisti che avevano atteso magari tutta la notte un passeggero. Ormai conoscevo la prima domanda di routine: «Sei sposata?», ed ero pronta con la mia risposta bugiarda, inventata per proteggermi: «Sì». Poi si passava a tutte le informazioni di rito sulla situazione della mia inesistente famiglia: «Quattro figli, tre femmine e un maschio». «Mashalla, Dio è grande».
Qualche tempo dopo si ripete la stessa scena, ma commetto un errore di copione.
«Quanti figli hai?». «Tre». Silenzio, poi una voce mesta: «Mi dispiace! Quando è successo?». Era lo stesso autista di qualche mese prima, testimone involontario, ma pur addolorato, di un lutto non reale.
I pakistani sono molto intuitivi e sanno leggere uno sguardo, un cenno. Quante volte in un negozio di tessuti mi è capitato, di fronte allo scaffale dove erano disposte in perfetto ordine centinaia di pezze, di chiedere di vederne una, sicura di avervi appoggiato gli occhi solo di passaggio, e il negoziante, sicuro, la indica: «Questa?»! A maggior ragione questo intuito funziona per i sentimenti. Non puoi nascondere niente. È capitato di frequente di sentirmi dire anche da persone pressoché estranee: «Sei preoccupata per qualcosa?», proprio mentre stavo cercando di sorridere e coprire con una particolare affabilità uno stato d’animo non del tutto roseo. È così che prendono significato mille piccoli accorgimenti che fanno parte degli usi e costumi, ma che possono anche rivelare una particolare sensibilità. Quando sei invitato a casa di qualcuno e ti è offerta una bevanda, impari a lasciarne sempre un fondo nel bicchiere. In tal modo fai capire al tuo ospite di averla gradita e che era proprio la quantità giusta. Se la bevessi fino all’ultima goccia, si potrebbe pensare che non te ne è stata servita abbastanza; se ne avanzassi di più, che non ti è piaciuta e non sei riuscito a berla tutta.
L’altro non entra nel tuo cuore da solo. Porta con sé tutta la sua famiglia, il suo mondo, le sue cose, e non gli basta che tu lo accolga con benevolenza, senza comprometterti troppo. Così non arriverai mai al “rapporto”. Ma se non ti chiudi e impari a offrire, anche con il silenzio, tutto di te, il tuo mondo, le tue incertezze, la tua voglia di imparare, se riesci a rendere l’altro sicuro che non pretendi nulla, allora scatta l’intesa. Sembra di non arrivare mai a poter dire: ho capito, ho imparato. Raggiungi un punto, ti appropri di una nuova sfumatura dell’amore e, come se girassi una curva, ti trovi di fronte a un panorama nuovo, completamente inesplorato.
John era un ragazzino molto vivace, forse quasi troppo. Lo avevamo conosciuto nei nostri primi anni a Karachi. Oggi è padre di quattro bellissimi bambini. Quando ci siamo salutati, in occasione della mia partenza, anche lui ha voluto dirmi il suo grazie per quanto avevamo condiviso lungo gli anni anche in momenti dolorosi e molto difficili per la sua famiglia. Li avevamo infatti aiutati e sostenuti economicamente più di una volta. Quando ha cominciato con i ringraziamenti, ero sicura che avrebbe parlato di questi interventi importanti, mentre lui ha ricordato un fatterello apparentemente insignificante: «Voglio ringraziarti per quella volta che mi hai chiesto scusa. Ti avevo visto in centro e tu eri in macchina e non ti sei fermata a salutarmi e io ero rimasto molto offeso, anche se tu non lo sapevi. La domenica successiva c’era un incontro e mi hai cercato fra 400 persone per chiedermi perdono per non esserti fermata. Grazie».
Daniela Bignone, Oltre il velo, nel cuore del Pakistan (Città Nuova, 2013)